Ci sono notti che entrano di prepotenza nella storia. Ci sono azioni, giocate e gesti atletici che rimangono scolpiti nella pietra non appena si verificano. E poi ci sono le emozioni. Quelle di chi spera e di chi sta soffrendo, di chi ha il cuore in gola e le dita incrociate. Quelle emozioni che fanno sì che chiunque si ricordi dove fosse e con chi fosse, quando si assiste ad un qualcosa di unico ed irripetibile. Gara 7 delle Western Conference Finals del 2000 racchiude tutto questo, e anche di più.
In copertina: Kobe Bryant #8 of the Los Angeles Lakers gets up high to block a shot by Bonzi Wells #6 of the Portland Trail Blazers during the 2000 NBA Western Conference Semifinals on June 4, 2000 at Staples Center in Los Angeles, California. (Andrew D. Bernstein, NBAE via Getty Images)
Rinascita
I Los Angeles Lakers si affacciarono al nuovo millennio in una veste completamente nuova. Salutati tra gli altri Eddie Jones, Derek Harper e Dennis Rodman, il GM Jerry West firmò un nucleo di veterani a cui affidò un duplice compito: portare esperienza in campo, ma soprattutto equilibrio in spogliatoio. Le firme di Ron Harper, A.C. Green, Brian Shaw e John Salley servivano a portare quella tranquillità che nei momenti decisivi era sempre mancata ai Lakers negli anni precedenti.
Il vero cambiamento West lo portò però in panchina, riuscendo a convincere Phil Jackson ad allenare i gialloviola dopo l’anno sabbatico che si era preso al termine della lunga avventura ai Bulls. Si è ormai scritto, letto e sentito di tutto, riguardo l’impatto che Coach Zen ha avuto non solo sulla franchigia, ma sulle carriere di Shaq e Kobe. La presenza di Jackson ha portato la stabilità emotiva (oltre che tecnica) che serviva alle due stelle per rendere al massimo. E la missione, come sappiamo, è riuscita alla grande.
Della rivoluzione orchestrata da Mr. Logo e della stagione 99/00 ne abbiamo parlato ampiamente nel Mamba Moment dedicato al completamento del three-peat.
Una Regular Season da (quasi) record
La stagione regolare 1999/00 è stata per i Lakers una vera e propria marcia trionfale. I californiani collezionarono 67 vittorie (che tutt’oggi resta il secondo miglior dato nella storia della franchigia), Shaquille O’Neal fu eletto MVP ed inserito nel primo quintetto All-NBA e nel secondo quintetto All-Defensive.
Di contro, Kobe Bryant fu inserito nel secondo quintetto All-NBA e nel primo All-Defensive (prima delle sue 12 inclusioni, secondo ogni epoca dietro Tim Duncan). Sulla difesa del Mamba torneremo più avanti. Bryant viaggiò a 22.5 punti, 6.3 rimbalzi e 4.9 assist a partita, aggiungendo 1.6 palle rubate sfiorando il 50% al tiro e andando oltre il 30% dalla lunga distanza. Il Kobe ventunenne era perciò un giocatore già in grado di collezionare cifre di assoluto livello co-guidando una squadra da 67 vittorie.
Il cammino ai Playoff
La post season del 2000 iniziò con qualche fatica in più del previsto per i Lakers, che eliminarono solamente alla quinta partita (all’epoca il primo turno non era ancora al meglio delle sette) i Sacramento Kings, futuri rivali anche negli anni a venire.
Il secondo turno vide i gialloviola avere la meglio sui Phoenix Suns con un agevole 4-1. La franchigia dell’Arizona non aveva modo di limitare lo strapotere di Shaq, che chiuse la serie con una mostruosa doppia-doppia da 30.2 punti e 16.2 rimbalzi di media a partita.
I Lakers si riaffacciarono così alle Finali di Conference due anni dopo il sanguinoso 4-0 subito dai Jazz, diventato famoso per gli airball di Bryant e per l’evanescenza di O’Neal di fronte a Karl Malone.
Blazermania
Ad attendere i californiani in Finale di Conference c’erano i Portland Trail-Blazers, senza dubbio la squadra più temuta dai gialloviola.
Sapevo sin dall’inizio che i nostri rivali nelle Finali di Conference sarebbero stati la squadra da battere nei playoff.
Phil Jackson
I Blazers non solo avevano il roster più costoso dell’intera NBA, ma avevano (a differenza del resto della Lega) le armi adatte a limitare Shaq e Kobe. Portland sembrava costruita apposta per battere i Lakers.
Il seppur 36enne Sabonis era forse l’unico nell’intera Lega in grado di reggere il confronto fisico con l’O’Neal del 2000, Rasheed Wallace era un rebus per la difesa lacustre e giocatori come Steve Smith, Damon Stoudamire, Bonzi Wells e Detlef Schrempf rendevano Portland profonda ed esperta. Ma, soprattutto, i Blazers avevano Scottie Pippen. Anche se 34enne, Pippen era di gran lunga il faro ed il termometro della squadra. Lui e Sabonis formavano una coppia con un QI cestistico di rara caratura.
The Western Conference Finals
La serie inizia con una vittoria a testa allo STAPLES Center, inaugurato all’inizio della stagione. I Lakers vincono entrambe le partite in Oregon e si ripresentano a L.A. sul 3-1. Gara 5 potrebbe sembrare una formalità, ma i 44 punti combinati di Rasheed Wallace e di un chirurgico Pippen (8/12 da due e 2/4 da tre) costringono i ragazzi di Coach Jackson a Gara 6.
Al Rose Garden Kobe sfodera una prestazione da 33 punti (12/24 dal campo con 6/9 da tre), 6 assist, 4 rubate e 2 stoppate, ma Portland riesce a tenere Shaq a soli 17 punti e con una grande prova corale i Blazers portano la serie a Gara 7.
L’inerzia della serie sembra pericolosamente cambiata, e i fantasmi delle fragilità mostrate dai Lakers negli anni passati, tornano ad aleggiare nello spogliatoio.
4 Giugno 2000, STAPLES Center: Game 7
In Gara 7 Bryant parte fortissimo in difesa stoppando Damon Stoudamire al secondo possesso della partita. L’incontro è teso, fatica a prendere ritmo. Il primo canestro di Kobe è il jumper del 9-6 a oltre 4 minuti dall’inizio. Poi i Blazers piazzano il primo parziale da 13-0 cha fa sprofondare i Lakers sul -10 sul finire del primo quarto.
Scottie Pippen è autore di 9 punti e, come detto in precedenza, è il barometro della squadra. Per il momento, gli sforzi di Bryant sono principalmente difensivi. La sua energia in single coverage annulla Stoudamire. Kobe è di fatto l’unico Laker che risponde (o perlomeno ci prova) colpo su colpo agli affondi di Portland.
La partita è nervosa, Shaq viene regolarmente triplicato nonostante riesca a caricare di falli sia Arvydas Sabonis che Brian Grant (entrambi a 2 alla fine della frazione).
Nel secondo quarto la partita viaggia sugli stessi binari del primo. I Lakers sono imprecisi e la panchina di coach Mike Dunleavy mantiene il vantaggio. Kobe continua a difendere come un matto, è famelico nella metà campo difensiva e annulla Bonzi Wells mentre questi stava iniziando a scaldarsi. O’Neal è sempre in difficoltà e a metà del periodo non ha ancora segnato un canestro dal campo.
A 4’30” dall’intervallo lungo, i gialloviola si rifanno sotto e arrivano all’intervallo con soli 3 punti di svantaggio, con Bryant che inchioda la schiacciata del 39-42.
Sembra che L.A. abbia trovato finalmente la quadra. Shaq sta scaldando i motori, Sabonis ha già tre falli e la difesa dei ragazzi di Jackson sembra aver trovato il modo di arginare l’attacco di Portland.
La tempesta Blazers
Pronti via e i Lakers accorciano a -1. Kobe è il solito segugio su Stoudamire (l’unico di Portland che fin qui risulta estraneo alla partita), ma nella metà campo offensiva si ritrova costantemente marcato da Pippen, il che ne condiziona inevitabilmente percentuali e pulizia dei movimenti.
A metà del quarto Glen Rice porta avanti i Lakers. Wallace risponde immediatamente, ma ancora Rice porta avanti i californiani. Dopo il tanto agognato sorpasso, l’inerzia della partita sembra andare verso gli angeleni.
A 5′ dalla fine del quarto un canestro di Steve Smith da il via ad una vera e propria tempesta da parte dei Blazers. Shaq è fermo a 0 punti nella frazione, e continua ad essere regolarmente raddoppiato e triplicato. Portland scappa via guidata da uno Sheed in serata di grazia.
Gli ultimi minuti del quarto sono un clinic tattico da parte dei ragazzi di Dunleavy, che trovano costantemente tiri aperti e puliti. Wallace e Smith combinano per 20 punti e quando O’Neal commette infrazione di passi sul -15 la partita sembra finita. I Lakers non solo non sembrano essere mentalmente sul pezzo, ma non paiono nemmeno in grado di poter incassare i colpi che Portland continua ad infliggere.
Ero terrorizzato. Ma non a causa della squadra, avevo solo paura di perdere.
Shaquille O’Neal
Kobe è l’unico che prova a tenere testa ai Blazers costruendosi da solo il canestro del -13. L’espressione sul suo volto è quella che tutti avremmo poi imparato a conoscere: denti digrignati, occhi concentrati, ghigno famelico. Senza ombra di dubbio, Bryant è la guida tecnica e spirituale dei Lakers.
La rimonta gialloviola
Con 20″ da giocare nel terzo quarto, Pippen risponde al numero 8 e segna la tripla del 55-71 che sembra chiudere la partita. Nell’azione seguente, un confuso attacco lacustre si chiude con la tripla di tabella di Brian Shaw. I Lakers sono ancora vivi.
Nei primi possessi dell’ultima frazione, Wells segna i liberi del +15. Per InPredictable, i californiani hanno solo il 5% di probabilità di vincere partita e serie. Pochissime, ma non nulle. L’iconica stoppata di Kobe su Bonzi accende l’atmosfera nel palazzetto, il pubblico si rianima. È il segnale che sta per accadere qualcosa. Nel ribaltamento offensivo, Shaw colpisce ancora dall’angolo, -10.
Un libero a testa di Kobe e Shaq e una tripla senza ritmo di Big Shot Rob aka Robert Horry portano i Lakers a -5. L’attacco di Portland è fermo. Sabonis è in panchina caricato di falli mentre Sheed si spegne lentamente. L’unico che prova a tenere a galla i suoi emotivamente e tecnicamente è ovviamente Pippen, ma gli sforzi del 33 si rivelano vani.
Sapevo che il nostro destino sarebbe passato più dalle mani degli altri (Horry, Shaw e Fox) che da una grande prestazione mia o di Kobe.
Shaquille O’Neal
I Trail Blazers non segnano per sei minuti collezionando 13 errori al tiro consecutivi. Bryant prosegue nella costruzione del parziale col jumper del -3, O’Neal piazza una sontuosa stoppata su Grant che accresce l’entusiasmo gialloviola sia in campo che sugli spalti.
Nell’azione successiva Shaw segna la tripla del 75 pari, chiudendo l’incredibile parziale di 15-0 con il quale i Lakers si riportano in parità a 3’50” al termine.
Un alley-oop per la Storia
Sheed riporta Portland sul +2, ma nel ribaltamento successivo Sabonis commette il sesto fallo su Shaq, che con due liberi realizzati e un appoggio al tabellone porta avanti i Lakers a 2′ dalla sirena. L’assenza del Principe del Baltico galvanizza O’Neal.
L’inerzia della partita è completamente cambiata, i californiani sono adesso in totale controllo emotivo di tutto ciò che accade sul parquet. All’inizio del quarto non ci avrebbe creduto nessuno. Serve però completare la missione. A 1’30” dalla sirena i gialloviola sono ancora avanti di due lunghezze.
Dopo due liberi sbagliati da Wallace, un jumper di Bryant fissa il +4. Pippen sbaglia una tripla fuori ritmo e poi, a poco più di 40″ al termine ecco che arriva la giocata simbolo.
Kobe penetra, dopo aver superato Scottie che era in marcatura su di lui. Grant si stacca da Shaq e va in aiuto verso il numero 8 lasciando così O’Neal solo nei pressi del ferro. A questo punto Kobe alza un lob altissimo, che Shaq riesce ad agguantare inchiodando la schiacciata del +6.
Lo STAPLES esplode. La panchina dei Lakers si riversa in campo, Shaq corre con le braccia al cielo indicando la sua famiglia sugli spalti. È un’istantanea che rimarrà nella Storia della NBA.
Il lascito
Pensavo di aver lanciato la palla troppo in alto, ma poi Shaq è andato su e l’ha presa.
Kobe Bryant
Shaq ha dichiarato che quando Bryant è penetrato in area i due hanno avuto “un contatto visivo” che ha permesso di capirsi al volo e partorire l’iconica giocata.
L’alley-oop rappresenta per certi versi la sublimazione tecnica ma soprattutto umana del duo Shaq-Kobe. Nel 2000 entrambi erano ancora alla caccia del primo anello, della consacrazione. Avevano perso insieme negli anni precedenti, e insieme sono usciti dalle pericolossissime sabbie mobili che i Blazers avevano imbastito nel 4° quarto.
Fu un momento gratificante vedere quei due giovani uomini unire le proprie forze in un’azione perfettamente coordinata per chiudere la partita.
Phil Jackson nel suo Eleven Rings
What if
Lakers-Blazers del 2000 rappresenta uno dei what if più importanti dell’intera storia NBA, sicuramente, perlomeno, della NBA del nuovo millennio.
In molti si chiedono cosa sarebbe sarebbe stato dei Lakers se si fossero fatti eliminare dopo essere stati in vantaggio 3-1. La pressione (soprattutto su Shaq) sarebbe diventata forse insostenibile. Non è azzardato pensare che l’eliminazione dei Lakers avrebbe innescato un butterfly effect pericoloso nei pressi di El Segundo. Non a caso, Chick Hearn, il leggendario radiocronista e telecronista gialloviola, all’inizio del quarto periodo dichiarò che “it’s gonna be a lonnng offseason for the Lakers“.
Da lì in poi, i Los Angeles non si fermò più. Come ha ammesso Jackson, “la Finale con i Pacers non ci avrebbe messo alla prova quanto le battaglie con i Blazers“. Negli due anni successivi, i gialloviola persero in tutto 5 partite di Playoff, vincendo altri due anelli e portando a casa il Three-peat.
È stato il momento decisivo della nostra incredibile cavalcata ai playoff.
Shaquille O’Neal
La nascita, o meglio, la cementificazione del gruppo che avrebbe poi dominato la NBA per gli anni a venire, ha avuto un nodo di svolta molto chiaro, in quel 4° quarto contro i Blazers, venendo suggellata per sempre da una delle giocate più iconiche della Storia della Lega.

Raccontare le gesta sul parquet di Kobe Bryant non è semplice. Impossibile scegliere le giocate più belle, più importanti o più decisive. Con indosso la canotta gialloviola numero 8 prima e 24 poi, The Black Mamba ha conquistato cinque titoli NBA, due premi di MVP delle NBA Finals, uno della regular season, due medaglie d’oro olimpiche, 18 convocazioni all’All-Star Game (con quattro MVP della partita) e collezionato una serie di giocate, record e prestazioni che rimarranno per sempre nelle memorie degli appassionati
La crew di LakeShow Italia ha deciso di ripercorrere la carriera della leggenda dei Los Angeles Lakers attraverso ventiquattro Mamba Moments, per un countdown tra i momenti più significativi di una carriera come pochissime nella storia del basket.
Classe 1993, giusto in tempo per vedere i Lakers di Shaq e Kobe. Da lì nasce un amore incrollabile per l’NBA e i Gialloviola. Lavoro, studio e scrivo. Nel tempo libero cerco di capire cosa sia passato nella testa di Ron prima di prendere QUEL tiro.