In copertina: Kobe Bryant in lunetta subito dopo l’infortunio (Noah Graham, NBAE via Getty Images)
Perdonerete una prima chiosa introduttiva personale: è passato quasi un anno e mezzo e fa ancora più male. Fa male in sé e per sé, fa male ad ognuno per mille motivi diversi. A me fa male – non che l’abbia scoperto ora – in corrispondenza dell’anniversario. Né che i motivi di insofferenza siano solo i seguenti, ma il fastidio s’è acuito in corrispondenza di questi, nel sentire dipingere le lodi postume di un campione come se avesse vissuto una carriera continuamente in ascesa, come se avesse sempre riflettuto l’immagine più limpida della perfezione e della grandezza.
Non è così e spesso i detrattori di allora sono gli incensatori, quindi bugie ed incoerenze: non bene, malissimo. Per ognuno di noi, nella nostra vita arrivare da un punto A ad punto B comporta un viaggio. E Kobe Bryant, esattamente come noi, era un uomo che è passato dall’essere immaturo, egoista, diffidente, eccessivamente confidente del fatto che potesse dominare tutto e tutti, per arrivare a tollerare i compagni, amare il gioco nell’accezione più pura che potesse contemplare, accettare una realtà diversa, sotto il livello di ciò che il suo autodeterminismo ed il suo spirito competitivo potesse accettare…ma ci torniamo, in seguito…la chiosa vuole essere anche introduzione alle conclusioni…
Russell Westbrook è un compagno di squadra tossico, Kevin Durant è un venditore di fumo che poi, in free agency ti lascia in braghe di tela, Lebron James vuole fare l’allenatore ed il general manager, oltre che il giocatore, Kawhi Leonard è un solitario che disprezza i compagni, Kyrie Irving un narciso, superstizioso a cui il basket interessa a fasi alterne…e potrei andare avanti a lungo: narrative. Se ne parlava l’ultima volta che ci siamo incontrati in questa rubrica: correva l’anno 2009 quando Kobe Bryant copriva gli ultimi chilometri della traversata del deserto, non solo metaforica, tra il terzo ed quarto titolo del suo invidiabile palmares, ma ancor di più della sua maturazione come uomo e giocatore. Un climax che ebbe i suoi riflessi sia nella legacy che nell’immagine pubblica del giocatore.
Ed immancabilmente, quanto più si sale di livello, tanto più le narrative sono influenzate dalla mancanza/presenza di successi e riconoscimenti sul campo. Kobe Bryant non è escluso da questa legge non scritta, anzi: raramente questa legge si è applicata a qualcuno in maniera tanto impietosa quanto inesorabile. Potremo dire tranquillamente che, storicamente, è proprio con lui, dato che i social compaiono nelle nostre vite dopo il ritiro di MJ, che la “lente d’ingrandimento” delle narrative diventa morbosa. Tornando a noi quindi, se si è puntato sul Kobe ecumenico, quello che ha trovato un equilibrio tra il suo ego, la sua voglia di vincere ed i compagni quando è tornato in vetta al mondo, inevitabilmente le storie sono tornate ad essere in chiaroscuro successivamente.
In particolare, siamo nel 2012, il back-to-back è oramai solo un lontano ricordo, in mezzo è successo di tutto: Phil Jackson ha lasciato lo Staples Center tra i fischi (stolti!) e la cartaccia che volava in campo, Mike Brown ha tentato di raccogliere i cocci e costruire qualcosa di nuovo e diverso, convincendo poco; senza dimenticare il blocco, da parte della Lega, della trade che costituisce tutt’ora il più grande what if della storia recente dell’NBA e che ha ”costretto” il management angeleno ad un piano B che non tarderà a rivelarsi disastroso, ma non (solo) nel 2012, negli anni a venire. Volete un esempio? Vi piace Mikal Bridges dei Phoenix Suns? A me parecchio…ecco, è parte della trade che portò Steve Nash ad L. A. Sapendo quando è arrivato Steve Nash (11 Luglio 2012) e quando è stato scelto (21 Giugno 2018) il predetto Bridges, senza addentrarsi nei gangli regolamentari, potete facilmente intuire la portata di determinate scelte.
Non bastasse il quadro introduttivo alla stagione, cioè tre o quattro lustri di eventi per qualsiasi altra franchigia, solo i precedenti 24 mesi vissuti a L.A., pronti via e viene cacciato l’allenatore a fronte di un record che recita 1W – 4L. La seguente gestione ad interim del buon Bickerstaff Sr. (che completerebbe un onestissimo 4W – 1L) è solo un diversivo rispetto al tema principale, costituito dai rumors sulla successione sul pino angeleno. Dovrebbe essere Phil Jackson il prescelto ma si presenta Mike D’Antoni, cioè l’allenatore sbagliato per un roster costruito male, con una filosofia inapplicabile date le circostanze ed il personale a disposizione. Non può che andare male, e va male. Novembre, Dicembre e Gennaio sono da brividi: i Lakers perdono sempre e non di poco, sono per lo più spaesati, indolenti e non hanno una parvenza di convizione in quello che fanno, chi perchè si ritrova a fare delle cose in campo che non condivide (Gasol) chi perchè gioca, quando gioca, infortunato (Nash e Howard) altri perchè dovrebbero essere trascinati dai predetti, ma figuriamoci.
Uno però non è per nulla scalfito da eventi, record, rumors e critiche, compagni, allenatore, giornalisti o avversari: KOBE BRYANT. Raramente avete sentito o sentirete ricordare Kobe per questa stagione, ma è in questa stagione, secondo l’umile parere di chi scrive, che sta l’essenza del Mamba.
Un tifoso tende ad abbassare il volume della radio quando la propria squadra è in un momento di down tecnico e di risultati, ma ricordo perfettamente le reazioni della fanbase gialloviola su twitter alla doppia doppia (14 punti + 14 assist) con 9 rimbalzi, 3 rubate e una stoppata con cui Bryant infioretta la vittoria del 25 gennaio 2013 su Utah…nonostante Gasol (addirittura) dalla panchina, Metta improbabile go to guy…insomma un armata bracalone in piena regola: si celebra un tripudio. Ed è da lì che cambia tutto, senza una precisa ragione tecnica i referti rosa tornano ad accatastarsi, in ogni modo possibile. Come contro Charlotte, qualche sera dopo: partita chiusa da secoli, riaperta magicamente da Greivis Vazquez (ve lo ricordate?) tra terzo e quarto periodo, sapete già chi è rientrato sul parquet per mettere due jumper ed i liberi/olive nel martini. Idem con patate ad Auburn Hills due sere dopo. Il tour ad Est prevede uno stop anche a Brooklin: vittoria ed inchiodata sulla testa di Kris Humphries e Gerald Wallace consegnata a Youtube ed ai posteri. Due brutte sconfitte prima di un all star game in ciabatte (comunque 9 assist, per rilassarsi) ma al rientro ci sono due partite a cui tiene particolarmente: Portland e Dallas. Contro i primi, che sono vittime predestinate, sai che il nostro non scende a patti, quarantello di ordinanza e tutti i canestri, ne lascia giusto uno a Nash, degli ultimi 5 minuti di partita. Ai secondi, anche questi mai amati, viene “stappato” un canestro gran riserva in arresto-pump fake-fade away in faccia a Vince Carter ma soprattutto a Marc Cuban, che aveva dichiarato ante gara che i Lakers avrebbero fatto bene ad amnistiare (il contratto di) Kobe. VIDEO
La dedica social post partita va da sè… TWEET
La mano è calda ed a 9 secondi della sirena se ne accorgono gli Hawks, tre partite dopo: VIDEO
Non vi dico i Raptors, che già con il nostro hanno dei trascorsi poco simpatici, e che (altri 5 giorni dopo) vincerebbero comodamente allo Staples, fatto salvo che il solito noto si rifiuta di perdere. E non perde: VIDEO E’ la gara (n°63 della stagione) in cui i lacustri riemergono sopra al livello del 50% di vittorie (32-31) Il record era 17-25 il 23 di Gennaio, siamo ad inizio Marzo.
Avete ormai capito l’antifona, chi spinge soprattutto uno, ma comincia a girare tutta la squadra, il finale di RS si direbbe perfino notevole, discreti passivi inflitti a Dallas, New Orleans e Portland inframezzati solo da una ripassata in occasione del derby. Poi arriva inesorabile il 12 aprile, che penserete (ma forse sarebbe opportuno dire pensavate, se siete arrivati fin qui) sia (fosse) il fulcro di questo articolo, in realtà non ho intenzione di fare qui nè la cronostoria nè tantomeno la vivisezione di un infortunio.
Più semplicemente mi piace ricordare come una normalissima partita di fine regular season sia diventata una guerra personale tra un uomo, che veramente a volte sembrava ancora diventare un serpente letale all’interno dei 28×14, contro il nuovo che avanzava rapidamente e che, prima di dominare la Lega negli anni a venire, avrebbe fatto penare non poco San Antonio di lì a nemmeno un mese, prima di cedere il passo.
Una guerra…basta vedere la concitazione (sempre controllata) dei movimenti di Bryant, la reazione al dolore dopo ogni mannaiata, la determinazione nei suoi occhi. Si d’accordo, c’erano sempre questi fattori, presenti ad ogni partita. Ma in questa di partita il crescendo è rossiniano: parte a tutti, dovunque nel campo, ha 34 anni e gli altri son dei ragazzini, sembra che ci sia in ballo, per lui, molto più della vittoria stagionale numero 43. Mille volte mi son chiesto se l’avessero tolto, se D’Antoni avesse chiamato il cambio, cosa sarebbe successo. Ribadisco, la squadra era costruita male, amalgamata peggio e non sarebbe andata da nessuna parte.
Il rimpianto non è per i Lakers 2012-2013.
Il rimpianto è non aver visto di cosa sarebbe stato in grado Kobe, col tendine sano, negli anni successivi.
Sono stato sempre intimamente convinto che quei occhi rossi e quelle lacrime, nel post-partita, avessero questo come motivo, non tanto la post-season saltata, non l’anno di riabilitazione, non la corsa al sesto titolo in fumo.
Quel “Cosa avrei potuto fare?” che diventerà “Cosa riuscirò a fare?”, una volta messo nel mirino l’obiettivo di tornare, nonostante tutto. E dentro a questo “nonostante tutto” sta l’essenza del