In copertina: Nick Van Exel (Andrew D. Bernstein, NBAE via Getty Images), elaborazione grafica di Francesco Anelli

Quella che mi appresto a raccontarvi è una storia fatta di cadute e rimpianti, ma anche di coraggio e sfrontatezza. La storia di un bad boy capace di farsi amare come pochi dai tifosi gialloviola, che – nonostante i tanti errori commessi – ne hanno potuto apprezzare anche il talento cristallino, la competitività e la capacità ipnotica di polarizzare attorno a se le attenzioni e le critiche. Non potevamo che iniziare così la rubrica Lakers Legends di LakeShow Italia dedicata ai giocatori che hanno fatto la storia della franchigia californiana.

Parliamo di Nick Van Exel, al secolo Nick The Quick, playmaker di 185 cm che ha indossato la maglia numero 9 dei Los Angeles Lakers per 414 volte tra il 1993 e il 1998. Nelle cinque stagioni trascorse nella Città degli Angeli, ha avuto l’onere di succedere nientemeno che a Magic Johnson prendendone il posto nel cuore dei tifosi. Ancora oggi è nel libro dei record di franchigia come terzo giocatore all-time per numero di canestri da tre realizzati (750), decimo per assist distribuiti (2749) e quarto per assist a partita (7.3, dietro Norm Nixon, LeBron James e ovviamente Magic). Detiene, inoltre, il record di triple realizzate in una singola stagione gialloviola, 183 (1994-95).

Van Exel è stato la stella assoluta della squadra per almeno tre stagioni. È stato Robert Horry prima di Robert Horry: il giocatore clutch cui i Lakers affidavano l’ultimo tiro, il go-to-guy con maggior talento e personalità. È stato colui che, quando il gioco si faceva duro, iniziava a giocare. Che raggiunse la convocazione per l’All-Star Game nel 1998 ed è ancora oggi l’ultimo playmaker ad esservi riuscito con addosso la canotta gialloviola.

Ma è stato anche un ragazzo problematico, che ha più volte tentato di boicottare la sua stessa carriera riuscendoci proprio quando il talentometro californiano schizzò alle stelle e la squadra sembrava pronta a scrivere pagine di gloria e successi. Se vi piace il fascino dell’eroe maledetto, del talento che è andato vicinissimo alla gloria senza conquistarla, questa è la storia che fa per voi. La storia di uno dei più forti talenti losangelini di sempre a non aver mai vinto un anello.

Sono ben quattro i gialloviola presenti all’All-Star Game del 1998 a New York: Shaquille O’Neal, Kobe Bryant, Nick Van Exel ed Eddie Jones. (Andy Hayt and Andrew D. Bernstein, NBAE via Getty Images)

🆙 Nick Van Exel: Early Life

Nickey Maxwell Van Exel è nato nel 1971 a Kenosha, una piccola città di 100.000 abitanti che si affaccia sul lago Michigan, nel Wisconsin, a metà strada tra Milwaukee e Chicago e recentemente balzata agli onori della cronaca per le violenze esplose a seguito delle proteste contro la brutalità e il razzismo della polizia americana.

Suo padre, ex stella liceale, gli trasmise la passione per la pallacanestro portandolo con sé ogni giorno alla palestra cittadina del Christian Youth Concil dove, si dice, la spiegasse a chiunque provasse a dire il contrario. Lì, a bordo campo, Nick lo vedeva giocare e sognava un giorno di emularne le gesta. Nick Sr. però, oltre al tiro in sospensione, aveva ben poco da insegnargli se non come rubare gli stereo dalle auto o come guadagnarsi da vivere illecitamente. Diciamo che non era esattamente un genitore modello.

Per Nick, però, era pur sempre il padre, quindi il suo idolo. Potete immaginare lo shock che visse quando a 7 anni vide la polizia che lo arrestò davanti ai suoi occhi. In prigione, Van Exel padre prima chiese il divorzio, poi, uscito qualche anno dopo, prese il primo volo per Atlanta senza fare più ritorno. Anzi si fece vivo solo parecchi anni più tardi, all’improvviso, con una telefonata nella quale prometteva al figlio di portarlo con sé in Georgia e di recuperare il rapporto interrotto.

Il giovane Nick, eccitato dall’idea di riunirsi finalmente col padre, si fece accompagnare dal nonno in aeroporto, a Milwaukee, ma – una volta giunto lì – scoprì si essere stato preso in giro non esistendo nessun volo per Atlanta a suo nome. Se negli anni ha sviluppato pura diffidenza verso tutto e tutti, è proprio perché esperienze come questa ne hanno forgiato il carattere insegnandogli a non fidarsi di nessuno, nemmeno del padre.

Con il padre assente e la madre Joyce costretta a lavorare anche nei turni di notte in una fabbrica di automobili pur di riuscire a pagare le spese, il giovane Nick trascorreva gran parte del tempo da solo o con gli amici. Salutava la madre, che lo vedeva giusto mezz’ora dopo la scuola prima di uscire di casa per andare a lavorare, e doveva vedersela da solo in tutto in una città, Kenosha appunto, che non era esattamente tutta rose e fiori, soprattutto nei quartieri poveri.

Lo sa bene proprio la signora Van Exel, vittima di un episodio di violenza inaudita nel 2001 quando una mattina fu trovata in un pozzo di sangue e in fin di vita, raggiunta da diversi colpi da fuoco (per fortuna, sopravvisse miracolosamente). Lo sa lo stesso Nick, il cui figlio è stato condannato nel 2013 a 60 anni di prigione per l’omicidio di un amico. Violenza, armi, tragedie, tradimenti, delusioni: non una vita tranquilla, la sua.

Senza i genitori ad occuparsi di lui, si trasferì a vivere dalla zia Jacqueline. Ci mise poco, però, a mettersi inevitabilmente nei guai. Iniziò a guidare a 14 anni, anche se riusciva a malapena a guardare oltre il cruscotto. Una notte, quando ne aveva 15, “prese in prestito” un’auto da un’altra zia, Wanda, e – dopo aver passato la notte fuori – si addormentò mentre era alla guida sulla via del ritorno e andò a sbattere contro un albero. Urtò il mento talmente forte contro il manubrio che un dente gli lacerò la pelle sotto il labbro inferiore aprendogli una ferita per la quale furono necessari 70 punti di sutura e il cui ricordo, ancora oggi, è testimoniato da una enorme cicatrice.

La sua famiglia, con i genitori praticamente fuori dalla sua vita, erano i due amici di sempre: Myron Glass e Curtis Turner. Il loro legame era il basket. E fu proprio la pallacanestro a salvargli la vita, mai come in questo caso letteralmente, e a costituire per lui lo sfogo della rabbia repressa e il riscatto da un’adolescenza altrimenti avara di gioie.

Curtis, Myron & Nick.

🔝 La High School: l’idolo locale

Van Exel e Glass si ritrovarono insieme anche nella squadra di basket della St. Joseph High School sotto la direzione di coach Dan Churiblo. Myron era un atleta dalle abilità fisiche pazzesche che giocava tre sport e ricevette due borse di studio dall’Università del Northern Iowa per giocare a football e a baseball. Assieme a Nick formava una coppia di backcourt leggendaria ricordata ancora oggi a Kenosha come la più letale mai vista da quelle parti.

Val Exel era la stella della squadra e la trascinò alle finali statali del Wisconsin Independent Schools Athletic Association (WISAA) nel 1988 e nel 1989. Da senior, realizzò 29.7 punti, 8.1 rimbalzi e 5.2 assist a partita e guidò la sua squadra ad un record di 20-6. Mise a referto almeno 30 punti in 15 occasioni, inclusi i 42 punti segnati contro Marquette e i 39 contro De Pere Pennings; chiuse l’high school con con 1282 punti complessivi in 52 partite.

Era un giocatore spettacolare: si buttava dentro con coraggio, tirava in faccia a tutti incurante dell’altezza, effettuava passaggi dietro la schiena ma era soprattutto un tiratore straordinario, in grado di segnare da ogni zona del campo.

«Quando ero nelle high school, non avrei mai pensato di giocare nella NBA. Non è mai stato un mio obiettivo realistico. Crescendo a Kenosha, nessuno era mai giunto nei professionisti prima di me, perciò non mi aspettavo di essere il primo.»

Nick Van Exel

Chi credette in lui da subito fu il suo coach. Chubrilo, che aveva allenato a Chicago prima di stabilirsi alla St. Joseph, aveva visto giocare Isiah Thomas alle high school e intravide nel giovane Nick lo stesso carattere sicuro di sé e la stessa voglia di non perdere del futuro Hall of Famer dei Pistons.

«Nick non era sfrontato: era molto sicuro di sé. Giocava con molta confidenza. Non aveva paura di niente. Sembrava imperturbabile.»

Dan Churiblo

Come quella volta in cui affrontarono la St. Catherine di Wagner Lester, un talento locale che finì a giocare a football per Illinois e si perse per problemi di alcol. Wagner li stava massacrando. Durante un time-out, Nick la prese sul personale e, nonostante non fosse il miglior difensore in squadra, anzi nonostante fosse il leader offensivo della squadra, gli chiese di poterlo marcare a uomo.

«Finì col fare un ottimo lavoro.»

Dan Churiblo

La gara contro Marquette

Il 12 gennaio del 1988, il 16enne Van Exel si rese protagonista di quella che è ricordata ancora oggi come la più grande prestazione individuale prodotta da un giocatore di high school nella storia di Kenosha. L’occasione fu la sfida contro la prestigiosissima Marquette High School di coach Paul Noack, a Milwaukee. Per capirci: quando si ritirò, Noack chiuse con un record di 511 vittorie (84% di successi), 8 WISAA State Championship e 12 apparizioni nelle finali statali.

Vincere nella sua palestra, quella degli Hilltoppers, era un’impresa storica. La partita non si mise benissimo con i Lancers di Nick che iniziarono il quarto quarto senza tre titolari fuori per falli. Ma, quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare e Van Exel trascinò quasi da solo la sua squadra ai supplementari.

«Ho detto ai ragazzi di dare la palla a Nickey e di togliersi dal cazzo!»

Dan Churiblo

Le dichiarazioni del coach nel post partita credo sintetizzino meglio di qualsiasi altra parola non solo la prestazione (9 punti in OT, tutti quelli della squadra), ma la mentalità di Nick che tra un canestro e l’altro zittiva il pubblico, cercava la pressione e si esaltava proprio in un contesto che avrebbe fatto tremare le gambe a chiunque. Per la cronaca, l’anno successivo i punti di Van Exel messi a segno contro Marquette furono 42.

Nick Van Exel contro Damon Key di Marquette (Beyond The Glory)

🔄 Il college: dal Texas all’Ohio

Il suo talento aveva scatenato l’interesse di diversi coach universitari. Van Exel, però, era un disastro a scuola e non riuscì a raggiungere i voti minimi necessari per poter vincere una borsa di studio in un college prestigioso. Non era soltanto questione di impegno sui libri: Nick si sentiva anche “diverso”. I suoi compagni avevano tutti l’automobile personale, pagavano con carta di credito, erano più ricchi, parlavano da ricchi, si vestivano da ricchi, si comportavano da ricchi. Lui no. Riusciva a trovare pace solo in un campo di basket, dove ogni differenza si azzera davanti al pallone.

Finì così al Trinity Valley Community College (TVCC) ad Athens, nel Texas, a 1500 km da casa. Fu una scelta, però, che si rivelò ben presto… problematica. La situazione divenne insostenibile, con conflitti razziali che portavano regolarmente i compagni di squadra a rubarsi oggetti, a far scoppiare risse, a volte violente.

Le accuse di violenza

È in Texas che a Van Exel viene appiccicata l’etichetta di bad boy. A inizio 1991, una rissa finisce con un suo compagno di squadra, James Roberts, all’ospedale. Testimoni riferiscono che fu un amico di Nick a sferrare un pugno da dietro e a mandarlo al tappeto, ma Van Exel ammetterà più tardi di aver dato un calcio in faccia a Roberts già svenuto. «Un solo calcio però, non sei-sette! Quando combatti, non è che ti senti in colpa: quando combatti, combatti.» Si salvò perché la polizia del campus disse a Roberts che non poteva sporgere denuncia perché, essendo stato colpito da incosciente, non poteva identificare l’autore dei pugni e dei calci.

Ci sono poi ex compagni di squadra che giurano di averlo visto in atteggiamenti abusivi nei confronti della ragazza di allora, Kim Waites. «Mi accusò di tradimento, ma non l’avevo tradito! Mi afferrò per il collo e mi sbatté giù sul letto.» Lei, curiosamente, era bianca.

Ad un certo punto, Nick chiamò esausto la madre chiedendole di tornare a casa. La signora Joyce, però, gli chiese di farsi coraggio, di non mollare, dicendogli che avrebbe dovuto superare i problemi per laurearsi e per uscire da Kenosha, che non doveva fare la fine del padre. Nick allora si mise sotto con i libri e riuscì a strappare finalmente 32 crediti in un semestre che gli diedero la possibilità di poter cambiare università e soprattutto ambiente, dopo due anni difficili, e riprovarci a Cincinnati.

Il trasferimento ai Bearcats

Arrivò all’Università di Cincinnati nel maggio del 1991, ma dovette studiare tutta l’estate per ottenere una borsa di studio. Finì per dormire nella palestra dell’università, tra un allenamento e le ripetizioni necessarie per ottenere i crediti, mostrando una lodevole passione per il gioco. Ottenuta la borsa di studio, si ritrovò alla guida di coach Bob Huggins, un duro, conosciuto per i suoi metodi quasi militareschi e per non guardare in faccia a nessuno. L’ideale per uno come Van Exel che per troppo tempo aveva vissuto senza un’educazione ferrea.

L’anno da junior di Nick fu incredibile. I Bearcats erano una squadra da 18-12: con Nick al comando, la prima stagione finì con un record di 29-5 e con una cavalcata incredibile nella NCAA che si concluse solamente alle Final Four contro gli ingiocabili Fab Five di Michigan. Van Exel finì quella gara con 21 punti, 5 assist e i complimenti di tutti i presenti: aveva messo se stesso e Cincinnati nella mappa del basket e sui taccuini di tutti gli osservatori NBA.

Non catturò però solo le attenzioni degli addetti ai lavori, ma anche quelle di qualcuno che era uscito dalla sua vita. Dopo averlo visto in tv, il padre Nickey sr. gli fece una telefonata. «Hey, figlio!», come nulla fosse. Per Van Exel fu un calderone di emozioni, dalla gioia alla rabbia. Lo invitò a Cincinnati con la speranza di ricostruire un rapporto interrottosi un decennio prima. Avere di nuovo il padre attorno gli fece inizialmente piacere, ma Nick non riuscì a sconfiggere la rabbia per l’abbandono e le continue delusioni e voltò definitivamente pagina. Dove sfogò la sua rabbia e le sue frustrazioni fu ancora una volta il campo.

Chiuse la seconda stagione a Cincinnati con oltre 18 punti a partita e con un record complessivo nei due anni in Ohio di 56-10 che gli valsero un posto nel Third-Team All-America e una candidatura al John R. Wooden Award per il miglior giocatore a livello nazionale. Ce n’era abbastanza, lato talento, per sperare in una chiamata alta nella NBA.

Nick Van Exel abbracciato da coach Bob Huggins dopo una vittoria contro Virginia e in azione contro Michigan. (Charles Rex Arbogast, AP Photo and John W. McDonough, Sports Illustrated via Getty Images)

🏀 La NBA: il Draft e l’approdo ai Lakers

Una volta fuori da Cincinnati, però, Van Exel dimostrò che la maturità in campo non andasse esattamente di pari passo con quella fuori. Nick saltò infatti due meeting programmati con gli Charlotte Hornets. Per giustificarsi, disse di aver ricevuto informazioni sbagliate sulla data del primo volo, e che un amico avesse fatto un incidente in auto impedendogli il secondo.

Poi si rese protagonista di un workout leggendario con i Seattle Supersonics. George Karl lo definì «Il peggior provino fatto con noi da un giocatore, in assoluto.» I due si incontrarono in un hotel di Seattle e Nick notò che coach Karl stesse indossando un cappellino di North Carolina (che, pochi mesi prima, eliminò i suoi Cincinnati alle regional finals). «Dean Smith (allenatore storico dei Tar Heels) avrebbe dovuto vincere più titoli NCAA.», disse provocando il giovane a colloquio. Karl, che giocò al college proprio a North Carolina sotto Dean Smith, gli domandò indispettito: «Da quando sei un esperto di allenatori?». Van Exel salì allora nella sua stanza e scese con un cappellino di Duke.

Aveva quel tipo di competitività, di atteggiamento che lo faceva in fondo apprezzare. Ma era anche un “cretino”. Così lo definì Karl quando, durante il provino, boicottò volutamente i test di agilità e corse le 300-yard in 1′08”. Di solito, le altre guardie lo completavano in 50, massimo 55 secondi. «Facciamo così: se lo rifai e scendi sotto i 55, farò finta di non aver visto il primo tentativo e non lo dirò a nessuno dei miei colleghi della NBA.» Nick rispose «No problem, questa sarà la volta buona.» E corse in 1′ 20″. Non era solo la reputazione da bad boy a frenarlo, ma era lui stesso che cercava in ogni modo di boicottarsi. Il talento, però, era talmente cristallino che lo stesso Karl, poche settimane dopo, cercò di fare trade-up per selezionarlo, nonostante tutto.

In 36 vennero scelti davanti a lui, inclusi giocatori che durarono pochissimo come Evers Burns, Darnell Mee, John Best. Meteore di cui non avrete mai sentito parlare.

L’arrivo a Los Angeles

Chi decise di dare una chance al suo talento preferendolo alla cattiva reputazione di cui godeva fu il vice presidente esecutivo dei Lakers, Jerry West. Van Exel arrivò a Los Angeles nel 1994, ancora 22enne, trovando una squadra la cui reputazione era se possibile peggiore della sua: Magic Johnson si era ritirato due anni prima e, senza di lui, i Lakers erano usciti al primo turno di playoff il primo anno ed avevano addirittura fallito la qualificazione l’anno precedente.

In quel contesto demoralizzato e ancora sotto shock per quanto successo alla sua stella più splendente di sempre (fino ad allora, quantomeno), Nick pareva l’uomo giusto al posto giusto, con una sfida, quella di rendere di nuovo competitivi i Lakers, che lo esaltava. Ma era soprattutto il modo di giocare che fece impazzire i tifosi del Forum che trovarono presto un altro idolo di cui innamorarsi.

The Logo portò infatti a Los Angeles un giocatore eccitante, che amava correre in contropiede e concluderlo con una giocata spettacolare: un assist dietro la schiena o tra le gambe, un no-look, una finta di passarla dietro la schiena per poi concludere in sottomano, un salto a sfidare i lunghi avversari finendo in acrobazia o con una piroetta, o un arresto e tiro da 3. Il suo stile di gioco era, in un aggettivo, esplosivo. Penetrava proteggendo il pallone come un running-back della NFL e poi, una volta vicino al ferro, inventava qualcosa. Col pubblico di L.A. fu amore a prima vista.

Bye Bye Boston Garden

Il 21 gennaio 1995 i Lakers giocarono la loro ultima partita nel mitico Boston Garden, la tana del lupo, il tempio degli odiati rivali storici. Con i Celtics avanti 118-117 a 2.4″, Van Exel si guadagnò la fama di giocatore clutch mettendo a segno la tripla della vittoria davanti a 14.890 tifosi ammutoliti.

«Il box score di questa partita finirà appeso nel muro del mio studio. Me lo faccio firmare da Nick e lo appendo al muro.»

Bill Bertka, storico assistente dei Lakers

Eppure la gara si era messa male quando, sul +1, proprio Nick perse palla con David Wesley che gliela deviò conquistando però una controversa rimessa a favore. Con i Lakers ancora intenti a protestare, il gioco riprese con 8.8″ sul cronometro e Dino Radja mise a segno il canestro del vantaggio a un paio di secondi dal termine ,che fece esplodere per l’ultima volta il Garden.

Time out Lakers. E poi un altro, con i giocatori gialloviola sotto shock. A meno di tre secondi dalla sirena, i Lakers misero Sam Bowie a rimettere la palla in gioco, marcato da Eric Montross. Il rookie dei Celtics mise un piede oltre la linea guadagnando un fischio per ritardo del gioco, permettendo al suo coach di leggere la giocata che gli avversari si apprestavano ad eseguire. Altro mini-time out Lakers, con coach Harris che fu costretto a cambiare gioco. La rimessa questa volta fu affidata ad Eddie Jones, che con una finta mandò fuori giri Montross e passò la palla dalla parte opposta per Van Exel, che – vicinissimo alla panchina dei Celtics – ricevette a pochi centrimetri dalla linea laterale, si girò e mise la tripla della vittoria con meno di mezzo secondo sul cronometro.

«Appena rilasciato il tiro, vidi che la traiettoria era dritta, ma non pensavo sarebbe entrato.» Entrò. Game, set, building.

L’anno migliore

Il secondo anno, fu per lui quello della consacrazione. Non solo divenne a tutti gli effetti il leader carismatico dello spogliatoio ma, sotto la guida di Del Harris, chiuse la stagione regolare con 17 punti e 8.3 assist a partita. E fece addirittura meglio alla sua prima apparizione ai playoff. Ne mise 29 al suo esordio contro i Seattle SuperSonics di George Karl, Gary Payton e Shawn Kemp, che però vinsero Gara-1.

In Gara-2, Nick lasciò spazio al compagno Cedric Ceballos, autore di 25 punti fondamentali per riportare la serie in parità. Van Exel mise poi 23 punti in Gara-3 e chiuse con 34 punti, 9 assist e 7 triple nella decisiva Gara-4 che portò i Lakers al secondo turno.

Contro i San Antonio Spurs di David Robinson e Dennis Rodman, disputò un’altra serie di altissimo livello perdendo solamente in Gara-6. Nick mise a referto più di dieci assist in Gara-1, Gara-2 e Gara-6; scollinò quota 20 punti in Gara 3 e Gara 5. Nel quinto atto della serie, mise a segno uno dei canestri più iconici della sua carriera: il buzzer-beater da tre che decise la gara.

Nei due turni disputati, Nick Van Exel mise a referto 20 punti con 2.1 triple segnate, 7.3 assist e 2.1 recuperi in 46.4 minuti a partita. Praticamente non riposò mai, era insostituibile e divenne così l’uomo copertina di una squadra che improvvisamente era diventata eccitante e fece tornare il grande pubblico al Forum.

Il fondo

La stagione dopo, quella 1995/96, lui e il compagno di squadra Eddie Jones chiesero a Magic Johnson di tornare in campo dopo il ritiro per aiutarli nei playoff. Invece di guidare i giovani Lakers all’anello, però, il ritorno del 32 ne distrusse l’alchimia. Senza più un leader riconosciuto, Nick si ritrovò a lottare proprio con Magic per un ruolo che fino ad allora si era conquistato sul campo, e la sua frustrazione iniziò a crescere.

Nick collezionò 10 tecnici e iniziò a dare segni di nervosismo in campo fino all’esplosione avvenuta il 9 aprile 1996, durante una gara contro i Denver Nuggets, in Colorado. Al play dei Lakers venne chiamato un fallo che Nick non accettò, protestando.

«Tutto ciò che ho detto è stato bel fischio, bel fischio: non si può ricevere un tecnico per aver detto bel fischio!»

Nick Van Exel

L’arbitro Ron Garretson Jr., a quel punto gli fischiò l’ennesimo tecnico stagionale e, quando Van Exel gli chiese spiegazioni per il provvedimento disciplinare, gli venne detto di “non fare il furbo”. Fu la goccia che fece traboccare il vaso: Nick esplose in una serie di insulti (“piccolo nano”) e parolacce che portarono ad un inevitabile secondo tecnico ed espulsione, alla quale Nick reagì spingendo l’arbitro con l’avambraccio e facendolo cadere sul tavolo dei segnapunti.

Per quell’episodio, venne punito con 7 giorni di sospensione e una multa record di 25mila dollari, cui aggiungere 161mila dollari di mancato stipendio (© NBA Media Ventures, LLC.)

Una punizione durissima, probabilmente anche volontariamente severa (pochi giorni prima Rodman venne sospeso 6 giorni per aver dato una testata ad un arbitro) che ne rovinò l’immagine per sempre e gli riattaccò quell’etichetta di bad boy e piantagrane che le prestazioni sul campo fino ad allora avevano fatto in parte dimenticare.

Tornato in tempo per i playoff, fu ancora una volta Magic Johnson a trascinare la squadra come aveva fatto per tutta la carriera, con 20 punti e 13 rimbalzi in Gara-1 e con 26 punti in Gara-2. Nick non riuscì ad incidere come la stagione precedente e alla fine arrivò l’eliminazione contro Houston in 4 partite (1-3) che pose fine anche all’esperienza da giocatore di Magic in maglia gialloviola.

⭐️ L’era Shaq & Kobe

Al suo quarto anno nella NBA, a 25 anni, Nick si ritrovò una squadra completamente nuova. A Los Angeles infatti arrivarono Shaquille O’Neal e il suo contrattone record e una matricola, un certo Kobe Bryant, di cui si parlava un gran bene. L.A. tornò improvvisamente la squadra più “cool” della NBA e iniziò ad essere considerata “contender”. La convinzione di tutti era che, prima o poi, sarebbero arrivati degli anelli in serie. Nick giocò a ottimi livelli, ma la presenza in mezzo all’area di Shaq gli tolse il ruolo di leader. I playoff iniziarono col cappotto rifilato a Portland e, al turno successivo, contro Utah, nonostante i 23 punti di Gara-1, i 12 assist di Gara-2 e i 26 punti della decisiva Gara-5, i Lakers vennero eliminati nella gara passata alla storia per gli airball del giovanissimo Kobe.

La delusione montò forte in quella squadra, che era convinta di avere le chances di giocarsi il titolo. Il rapporto tra il play e coach Del Harris, già abbastanza problematico fino ad allora, divenne pericolosamente instabile. La squadra, però, aveva una quantità di talento strabordante e a Nick vennero perdonati diversi atti di insubordinazione.

L’All-Star Game del 1998

All’inizio del 1998, Van Exel venne scelto dagli allenatori NBA come riserva per rappresentare la Western Conference nell’All-Star Game svoltosi al Madison Square Garden, a New York, l’8 febbraio. La notizia giunse al 26enne come un fulmine a ciel sereno. Non riusciva a crederci dalla gioia. Aveva realizzato il sogno di tutti i giocatori NBA, addirittura scelto dagli allenatori, proprio mentre faticava nel rapporto col suo. In quel momento, si mise alle spalle tutto.

L’infanzia difficile, le difficoltà a scuola, la cattiva reputazione, la violenza, la sospensione, le etichette cattive, il suo costante dover dimostrare qualcosa al mondo. Non più. O almeno: non quella notte. Finì con 13 punti, 3 rimbalzi e 2 assist uscendo dalla panchina. Allenatore? George Karl, proprio lui. Durante il primo quarto, che Van Exel spese in panchina, alla NBC i commentatori parlarono di lui.

«Credo che i due giocatori che meritano più di tutti di essere qui, finalmente, sono Rik Smits (centro di Indiana) e Nick Van Exel: i loro ultimi campionati sono stati di altissimo livello ed era ora che la NBA li premiasse.»

Bill Walton

A 90” dal termine, Van Exel realizzò il suo ultimo canestro: una schiacciata. “I tifosi vogliono vedere le schiacciate, ma le mie ginocchia non mi permettono di schiacciare quest’anno”. Bum. Schiacciata all’All-Star Game.

🌵 La Trade

La stagione, quella del lockout e “dell’asterisco”, iniziata con il migliore dei propositi, proseguì male e terminò peggio. Van Exel a marzo perse il posto da titolare in favore di Derek Fisher, ritenuto più affidabile da coach Harris. Invece di arrabbiarsi e rivendicare la sua leadership, Van Exel quasi accettò di essere declassato: meno stress, meno complicazioni, meno responsabilità. Una mossa che – se fece felice l’allenatore – fece arrabbiare Jerry West che si aspettava più orgoglio e reazione. L’impressione era che stesse uscendo da quello stato mentale di aggressività, coraggio e sfacciataggine che ne caratterizzò i primi anni della sua esperienza losangelina.

La stagione terminò con i Lakers eliminati ai playoff in finale di Conference ancora una volta dagli Utah Jazz con un umiliante 0-4. In quella serie, a pochi minuti dalla palla a due di Gara-4, al momento del canonico urlo “1, 2, 3, Lakers!“, Van Exel esclamò “Cancún”. Per chi non lo sapesse, città messicana sulla penisola dello Yucatán bagnata dal Mar dei Caraibi e famosa per le spiagge, i numerosi resort e la vita notturna.

Lo scherzo, che per Van Exel sarebbe dovuto essere un modo per allentare la tensione tagliabile con un coltello, non sortì gli effetti sperati. Anzi. La gara finì 96-92 per i Jazz nonostante 38 punti di Shaq e 19 di Eddie Jones. Shaq andò su tutte le furie sentendo addosso la pressione dell’anello che non arrivava e Kobe, nonostante fosse ancora un ragazzino, era già quella macchina da guerra mentale che conosciamo bene. West decise allora che fosse giunto il momento di porre fine alla carriera in gialloviola del play scelto da lui stesso e sempre difeso contro tutto e tutti.

«Van Exel era il mio giocatore dei Lakers preferito. Di gran lunga. Perché mi riconoscevo nella sua voglia di successo. Pensavo avessimo trovato un giocatore che sarebbe restato con noi per 10-15 anni. Non lo abbiamo scambiato per ottenere un giocatore migliore in cambio, perché sapevamo fosse impossibile. Cercammo di migliorare qualcosa togliendo qualcosa»

Jerry West

Il 24 giugno 1998, dopo 5 stagioni come play dei Los Angeles Lakers, Nick Van Exel venne ceduto ai Denver Nuggets per Tony Battie e Tyronn Lue. Rivista oggi, forse la peggiore trade talento vs talento della storia dei Lakers. Van Exel la prese inizialmente malissimo. Passare da Los Angeles e una squadra da titolo ai derelitti Denver Nuggets gli sembrava quasi un affronto, l’ennesima punizione eccessiva. Minacciò addirittura di ritirarsi. Poi però se ne fece una ragione, superò ancora una volta le difficoltà e guidò una squadra in disperato bisogno di leadership finendo la stagione nella top-10 della NBA in punti e assist tanto che, nel marzo del 2000, il GM dei Nuggets, Dan Issel, lo premiò con un rinnovo da 71 milioni di dollari, il massimo salariale possibile.

Dopo 13 anni nella NBA, ora Van Exel è un apprezzato Player Development Instructor e attualmente lavora per gli Atlanta Hawks.

Guarda le migliori giocate della carriera di Nick Van Exel:



Il racconto, la ricostruzione e l’analisi delle imprese di Bryant. Puntate speciali del podcast dedicate a ripercorrere la storia di Kobe. Tutto, nella sezione destinata a mantenere viva più che mai l’eredità del Black Mamba.

Cresciuto indossando una di quelle (oggettivamente) orrende t-shirt a mezza manica viola con davanti stampata una foto di Magic, mentre i compagni di scuola esibivano la più ricercata rossa di Jordan. Da allora, gialloviola dipendente.

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