In copertina: Michael Cooper nel 1987 (Rick Stewart, NBAE via Getty Images), elaborazione grafica di Francesco Anelli

Boston, 7 giugno 1986. Il giorno seguente, i Celtics avranno il secondo match point contro gli Houston Rockets, per chiudere la serie e vincere il terzo titolo in sei anni. Jack McCallum, leggendario giornalista di Sports Illustrated, assiste all’ultimo allenamento dei verdi prima della partita. I ritmi sono alti, l’agonismo è elevato.

A Larry Bird, che ha chiuso Gara 5 con soli 13 tiri, viene chiesto se è preoccupato del trattamento difensivo che gli riserveranno Robert Reid e Rodney McCray. La risposta è breve, emblematica e definitiva: «Michael Cooper non gioca in questa serie, e lui è l’unico che può spegnermi per davvero».

Può sembrare paradossale, che per parlare di Michael Cooper si debba partire da Larry Legend, ma in realtà ha perfettamente senso. Per bocca dello stesso Bird, Cooper è stato, insieme a Scottie Pippen, il difensore che gli ha dato più problemi in carriera.

Il rispetto e i ripetuti attestati di stima che negli anni sono arrivati da una delle più grandi figure della storia della NBA sono un riconoscimento per certi versi maggiore di quelli ottenuti in campo e fuori. Sono il marchio di qualità sull’impatto che Mike ha avuto non solo sulla storia dei Los Angeles Lakers ma, di riflesso, su quella dei suoi avversari e della NBA in generale.

🌴 Born and Raised in L.A.

Michael Jerome Cooper nasce il 15 aprile 1956 a Pasadena, zona nord di Los Angeles. Anche lui, come tanti suoi futuri colleghi in NBA, viene cresciuto dalla mamma e dalla nonna. Il piccolo Mike è un bambino esile e gracile, tanto che la nonna lo chiama ‘beanpole’ (ovvero, lo stecco di legno che serve a far crescere la pianta di fagioli).

All’età di soli quattro anni, Cooper rimane vittima di un incidente domestico che poteva segnargli non solo la futura carriera, ma la vita intera. Giocando, scivola infatti su una lattina di caffè aperta, che gli provoca un taglio all’altezza del ginocchio sinistro che arriva fino all’osso. Serviranno più di 100 punti di sutura e otto mesi di sedia a rotelle e stampelle per ritornare a camminare.

Una volta guarito, gli zii materni spingono Michael a testare in ambito sportivo il suo fisico asciutto e atletico. Alla Pasadena High School, Cooper prova prima il baseball e poi il football, nel ruolo di wide receiver. La poca massa muscolare e il conseguente rischio di farsi male, lo spingono però ad abbandonare il football e gli sport di contatto. Michael si dà all’atletica leggera, in particolare al salto in alto, dove i risultati sono di buon livello.

C’è però ancora uno sport in cui lo spiccato atletismo e la mente brillante di Cooper possono fondersi in un mix di altissimo livello: il basket. Una volta intrapresa la strada del parquet, Michael non la abbandonerà più.

Equal Opportunity Motion Offense

Michael Cooper trascorre i primi due anni di college al Pasadena CC (da dove è transitato anche Jackie Robinson), salvo poi trasferirsi nel New Mexico per giocare ad un livello più alto, in Division I.

Il coach dei Lobos è Norm Ellenberger, che ad Indiana University sarà, per dieci anni, assistente del leggendario Bobby Knight. Ellenberger instaura un sistema di gioco che egli stesso chiama ‘Equal Opportunity Motion Offense’, fatto di continui run-and-gun in modo da esaltare lo spiccato atletismo dei suoi giocatori.

Il coach capisce che il talento offensivo di Cooper è buono, ma non è di livello eccelso. Per questo motivo, spinge l’atletismo di Michael verso la difesa, facendogli marcare costantemente il miglior marcatore avversario.

«Ellenberger mi disse che se avessi difeso duramente sui migliori scorer avversari, sarei andato nella NBA. Quando vidi Jerry West alle nostre partite, capii che aveva ragione.»

Senza ombra di dubbio, Coop è il miglior giocatore mai transitato alla University of New Mexico e il quinto seed con il quale i Lobos si presentano al torneo NCAA del 1978 rimane ad oggi il miglior risultato mai raggiunto dal college.

Cooper chiude il biennio ad Albuquerque con 15.6 punti, 5.3 rimbalzi e 3.8 assist di media, dichiarandosi eleggibile per il draft NBA del 1978.

Michael Cooper
Michael Cooper contro Keith Anderson nel 1978 (Associated Press)

The LakeShow Begins

Nell’estate del 1978 i Lakers sono reduci da un’annata chiusa con 45 vittorie, seguita da un’eliminazione al primo turno di playoff contro i Seattle SuperSonics, futuri finalisti. A roster sono presenti Abdul-Jabbar, Wilkes e un giovanissimo Dantley.

I gialloviola scelgono Michael Cooper alla 60esima chiamata. Alla numero 6, i Boston Celtics avevano scelto Larry Bird. I Lakers di fine anni ’70 sono una squadra in mezzo al guado. Il roster guidato da Kareem garantisce una quarantina alta di vittorie stagionali e l’accesso regolare ai playoff. Troppo poco per ambire alle vette della Lega.

L’estate del 1979 cambia totalmente sia le sorti della franchigia, che quelle della NBA. Jerry Buss, un facoltoso imprenditore immobiliare che ha fatto fortuna a Los Angeles venendo dal Wyoming, acquista i Lakers, i Kings (la squadra cittadina di hockey) e il Great Western Forum.

Buss rivoluziona il modo di vivere il basket, riempiendo le pause di gioco con cheerleader, spettacoli in campo e musica dal vivo. Per valorizzare un contesto di questo tipo, serviva un giocatore elettrizzante, capace non solo di vincere, ma anche di coinvolgere il pubblico e creare nel palazzetto un’atmosfera magica.

Nel draft del 1979, con la prima scelta assoluta acquisita “grazie” a Gail Goodrich, i gialloviola scelgono Earvin “Magic” Johnson e niente sarà più come prima. L’accoppiata Buss-Magic catapulta i Lakers in una nuova dimensione, trasformando i gialloviola nella squadra più glamour dello sport americano. Inizia lo Showtime.

Norm Nixon (10), Mitch Kupchak (41), coach Paul Westhead, Jamaal Wilkes (52), Magic Johnson (32), Kareem Abdul-Jabbar (33) e Michael Cooper (21) nel 1981. (Lane Stewart, Sports Illustrated via Getty Images)

🎆 Showtime Era

L’arrivo di Magic stravolge la squadra non solo mediaticamente, ma anche (se non soprattutto) tecnicamente. I Lakers diventano una squadra run-and-gun, nella quale velocità e contropiede sono i nuovi mantra tattici.

In questo nuovo contesto, Michael Cooper (che l’anno prima aveva giocato solo tre partite) si trova perfettamente a suo agio. Memore dell’Equal Opportunity Motion Offense di coach Ellenberger, Mike si adatta istantaneamente al nuovo sistema di gioco, entrando stabilmente in rotazione.

Cooper gioca tutte le 82 partite chiudendo con 8.8 punti in 24.1 minuti di media. Michael parte sempre dalla panchina, ma è il primo cambio dei coach Jack McKinney prima e Paul Westhead poi, prendendo in questo modo il ruolo che manterrà per un intero decennio: quello di sesto uomo.

Chick Hearn, il leggendario telecronista e radiocronista dei Lakers, ci mette pochissimo a coniare il soprannome che lo accompagnerà per tutta la carriera: Coop-a-Loop, in virtù dei ripetuti alley-oop che Magic alza al numero 21 gialloviola.

Il grande atletismo di Cooper lo porta a correre sulle linee di passaggio e avvicinarsi al ferro raccogliendo i lob perfetti di Magic. Il risultato è semplice e immediato: Coop-a-Loop.

Da persona estremamente intelligente, Cooper capisce immediatamente che, nonostante il sistema di gioco, il suo talento offensivo non gli permetterebbe di avere un ruolo determinante all’interno della squadra. In un roster con Kareem Abdul-Jabbar, Magic, Wilkes, e successivamente James Worthy e Byron Scott, le sue doti di attaccante lo confinerebbero in fondo alla panchina.

È quindi difensivamente che Mike diventerà non solo determinante, ma anche insostituibile, nel corso dell’intero decennio. La macchina quasi perfetta che erano i Lakers dello Showtime, non poteva prescindere dall’ingranaggio Coop.

La stagione 1979/80 finisce con quel drama che è poi diventato uno dei momenti più iconici della storia della NBA. I nuovi Lakers di Magic e Kareem approdano in finale, dove ad attenderli ci sono i Philadelphia 76ers di Julius Erving e Darryl Dawkins. L.A. è sopra 3-2 nella serie, ma in Gara 5 Abdul-Jabbar, oltre a finire la partita con 40 punti, si fa male ad una caviglia. Il responso medico non ammette repliche: Kareem non giocherà Gara 6.

Il sesto atto è Storia con la S maiuscola. Magic (nel suo anno da rookie) gioca da centro e finisce la partita con 42 punti e il titolo di MVP delle Finals. Pochi ricordano però i comprimari di quella sera. Jamaal Wilkes fa registrare il suo career-high con 37 punti a referto, e Michael Cooper (formalmente un sophmore ma di fatto un rookie) gioca la sua prima partita NBA da titolare chiudendo con una solida prestazione da 16 punti, terzo miglior marcatore di squadra.

Un estratto di Gara 6 delle Finals 1980. Cooper ruba palla e avvia il contropiede che viene chiuso da Jamaal Wilkes.

All-Defense Player

Con la vittoria del primo titolo, si apre il ciclo dello Showtime, che durerà per l’intero decennio e nel quale i Lakers saranno la squadra più vincente della Lega. La spettacolarità e lo sbilanciamento offensivo del sistema implementato da Westhead e portato avanti da Pat Riley, non andranno ad incidere sull’equilibrio e sull’efficienza della squadra.

Come detto più volte, in un sistema del genere il ruolo di equilibratore affidato a Cooper è fondamentale. Mike è colui che entra dalla panchina e ha il compito di difendere sul miglior marcatore avversario. Da Dr. J a George Gervin, passando per Mike Mitchell, Andrew Toney e David Thompson, fino ad arrivare a Dominique Wilkins e ad un giovane Michael Jordan. Coop ha marcato tutti i migliori scorer degli anni ’80, sera dopo sera. E poi, ovviamente, c’era Larry Bird.

Un compendio della difesa di Michael Cooper: stoppate, recuperi, tiri contestati, sfondamenti presi. Una sera dopo l’altra, Coop aveva il compito di limitare i migliori attaccanti del pianeta. È esemplare, inoltre, come dopo un’azione difensiva, Mike inizi immediatamente a correre nella metà campo offensiva, riuscendo poi a chiudere l’azione.

L’abnegazione, la costanza e l’altissimo rendimento fanno sì che, nell’arco del decennio, Michael venga inserito per otto volte nei migliori quintetti difensivi, tre secondi (’81, ’83, ’86) e cinque primi (’82, ’84, ’85, ’87, ’88). Nel 1987 Cooper viene premiato con il Defensive Player of the Year.

«Quando sono arrivato per la prima volta ai Lakers, mi hanno detto: “Abbiamo Kareem, Norm Nixon e Jamaal Wilkes, non abbiamo bisogno di un altro attaccante”. È così che ho avuto la spinta a diventare un buon difensore.»

Può sembrare curioso come i numeri asciutti non siano mai stati eccellenti. Nell’anno in cui si aggiudica il premio, (1986/87), ad esempio, Cooper chiude con sole 0.5 stoppate e una rubata di media, cifre oggettivamente innocue. Ma i numeri non dicono tutto, specialmente quando si tratta di difesa ed effort. Mike infatti riesce costantemente a rendere la vita difficile al proprio avversario, sporcandone le percentuali e opponendosi fisicamente in modo duro.

Coop rimane, ad oggi, l’unico Laker ad aver vinto il premio di difensore dell’anno, e rimane inoltre l’unico giocatore non titolare nella storia della NBA ad essere riuscito ad aggiudicarsi il premio.

Larry Legend

È con Larry Bird che Cooper ha costruito la sua fama e migliorato sensibilmente il suo gioco. Michael studiava le movenze di Larry anche a notte fonda, riguardando videocassette su videocassette, per capire come poter limitare il numero 33 dei Celtics. Coop aveva in casa circa 50 cassette contenenti più o meno 150 partite di Bird. Non per niente il Boston Globe lo rinominò “Larry’s Shadow”.

La difesa di Cooper su Bird è fatta di grande intensità fisica, tanti contatti e la giusta dose di atletismo con cui Coop riusciva ad annullare i 10 centimetri di differenza con la leggenda dei Celtics.

Questa ossessione per la leggenda dei Celtics nasce da un profondo rispetto che prova per il suo avversario più impegnativo. È lo stesso Michael ad ammettere di ammirare la mentalità e il duro lavoro di Larry, oltre che, ovviamente, il talento e la personalità.

«Bird onora il Gioco fino alla fine. Dalle linee laterali fino alla linea di fondo. È questo quello che più rispetto di lui.»

Nei volti da copertina che quelle leggendarie sfide tra Lakers e Celtics ci hanno regalato, Michael Cooper non compare quasi mai. Da una parte ci sono Magic, Kareem, Worthy, Scott e Riley, dall’altra Bird, McHale, Parish, Dennis Johnson e K.C. Jones.

Coop non ha nemmeno un instant classic tutto suo, come può averlo Kurt Rambis (stiamo parlando ovviamente del fallo che subisce da Kevin McHale nelle Finals del 1984). Anche questo è perfettamente coerente con il personaggio e la carriera di Michael: sempre in seconda linea.

È però opinione comune, che senza il numero 21, i libri di storia avrebbero un numero di pagine verdi più alto di quello attuale. I ripetuti riconoscimenti che lo stesso Bird ha riconosciuto a Cooper nel corso degli anni, sono la dimostrazione di quanto Mike fosse fondamentale nell’equilibrio e nei risultati dei Lakers.

«Di tutti i riconoscimenti o premi che potrei vincere, questo [gli elogi di Bird, ndr] è probabilmente quello a cui tengo di più.»

Cooper e Bird durante uno dei loro epici scontri. (Peter Read Miller, Sports Illustrated via Getty Images and Stephen Dunn, Allsport via Getty Images)

Three-Point shooter

L’aspetto più sorprendente e sicuramente meno conosciuto del gioco di Michael Cooper, è la sua abilità nel tiro dalla lunga distanza. Utilizzato come arma tattica quando i terminali offensivi dei Lakers erano raddoppiati o triplicati, il numero 21 dei gialloviola è riuscito a diventare uno specialista.

I numeri in questo caso parlano chiaro. Coop ha chiuso la carriera con il 34% dalla lunga distanza, toccando il 38.7% nel 1986 e tirando con oltre il 38% in altre due stagioni. Nelle sue dodici (che di fatto si possono considerare undici) stagioni ai Lakers, Cooper ha superato il 30% di media da 3 per ben sei volte.

Per tre volte in carriera, Mike è stato nella top 10 NBA per percentuale da tre (’84, ’86, ’87) e nel 1987 ha partecipato al Three-Point Contest, in quella che rimane l’unica sua apparizione all’All-Star Weekend.

Ma è il 4 giugno 1987 che Michael Cooper fa registrare, in questo ambito, un record NBA rimasto a lungo imbattuto. In Gara 2 delle Finals, al Forum, Cooper segna 21 punti con 6/7 dalla lunga distanza, stabilendo il record per il maggior numero di triple realizzate in una partita delle Finali.

Le sei triple realizzate da Cooper in Gara 2 delle Finals 1987, un record rimasto imbattuto per anni.

🏀 Michael Cooper After Retirement

Dopo cinque titoli vinti (unico giocatore insieme a Magic e Kareem a vincere tutti gli anelli del ciclo gialloviola), dodici anni a L.A. e una breve apparizione alla Virtus Roma, nel 1991 Michael Cooper appende le scarpe al chiodo.

La grande intelligenza che ha sempre contraddistinto Coop, lo ha portato immediatamente in panchina. Dopo aver brevemente collaborato con Jerry West (allora GM dei Lakers), dal 1993 al 1996, Michael siede sulla panchina gialloviola in qualità di assistente.

Nella primavera del 1996, Cooper è al centro di un punto di uno dei momenti più importanti della storia della franchigia. Poco prima del draft, West gli chiede se può partecipare ad un workout con un ragazzino proveniente dall’high school. Michael ha 40 anni, ma è ancora atletico e abbastanza in forma, oltre che ad avere un’esperienza sconfinata.

«Non c’era nessuna paura in lui. Penso che fosse quello che stavamo cercando.»

West gli chiede di andarci giù duro e non risparmiarsi. Dopo mezz’ora, Jerry interrompe il workout dicendo di aver visto abbastanza. Cooper ricorda di essersi andato a sedere «completamente bagnato e senza fiato», e ammetterà che quel 17enne lo ha «preso a calci in c**o». Quel ragazzino era Kobe Bryant (si veda il Mamba Moments: il Draft del 1996).

Michael Cooper dimostra il suo grande atletismo. (Focus on Sport and Noren Trotmanmm, via NBAE Getty Images)

Coach Coop

Dopo l’esperienza da assistente sulla panchina gialloviola, nel 1999 Cooper siede sulla panchina delle Los Angeles Sparks, la squadra di basket femminile della città, di proprietà di Jerry Buss. Coop resterà sulla panchina delle Sparks fino al 2004, vincendo due titoli WNBA (2001 e 2002) e un premio di Coach of the Year (2000).

Nei suoi primi due anni da Head Coach, il record recita 56 vittorie e appena 8 sconfitte. In poco tempo, Michael si è adattato perfettamente al suo nuovo ruolo, confermando l’arguzia che da sempre lo contraddistingue. Dopo le Sparks, Coop allena ad interim i Denver Nuggets nel 2004/05 (4-10 il record), salvo poi accasarsi agli Albuquerque Thunderbirds.

«Mi piace insegnare. Cerco di insegnare ai miei giocatori come essere non solo dei bravi giocatori di basket, ma anche delle brave persone, produttive nella società.»

Con la squadra di D-League, Cooper vince il titolo al primo tentativo nel 2006 (unico della storia della franchigia), dimostrando una volta di più le capacità in panchina. Dopo essere tornato per un paio d’anni alle Sparks, Coop guida la squadra femminile della University of Southern California per quattro stagioni, chiudendo con un record di 61-37 (62,2%).

Dopo un ritorno per quattro anni in WNBA alle Atlanta Dream, Cooper si dedica a contesti differenti come il BIG3 e le high school. Il record ai playoff WNBA di Cooper è 26-16 (61%), uno dei migliori della storia della Lega.

Michael Cooper and Lisa Leslie
Michael Cooper con Lisa Leslie delleSparks nel 2003 (Andrew D. Bernstein, WNBAE via Getty Images)

Not a Hall of Famer

Il contributo al basket dato da Michael Cooper è assolutamente innegabile. Protagonista in una delle squadre più iconiche della storia dello sport, il palmarès di Coop vanta 5 titoli NBA, 8 inserimenti negli All-Defensive Team, un premio di Defensive Player of the Year, due titoli WNBA, un premio di WNBA Coach of the Year e un titolo della allora D-League.

Sia nel 2021 che nel 2022, Coop è arrivato tra i finalisti per essere indotto nella Hall of Fame, senza però mai entrarvici. Gli attestati di stima e di supporto per questo riconoscimento sono arrivati all’unisono da ex compagni e ex avversari.

«È un grande onore. Quando giochi a basket, lo fai per amore, per vincere i titoli, per la squadra. Essere preso in considerazione come singolo mi onora.»

Il noto sito di statistiche Basketball Reference ha stimato le probabilità di Cooper di essere indotto nella HoF intorno all’1.2%. Decisamente basse. A questo va aggiunto che il numero 21 non è ancora appeso alla Crypto.com Arena.

Come è noto, l’introduzione nella Hall of Fame è un prerequisito fondamentale perché i Lakers ritirino la maglia di un loro ex giocatore (esemplare il caso di Wilkes). Il fatto che Cooper sia nella Top 10 All-Time dei Lakers per partite e minuti giocati, assist, rubate e stoppate, purtroppo, significa poco.

Probabilmente, Michael Cooper non entrerà mai nel club di Springfield, ma sarebbe giusto, ancora prima che bello, che i Lakers lo onorassero con il ritiro del numero 21.

Michael Cooper
Michael Cooper con il Larry O’Brien Championship Trophy conquistato nel 1988 dai Los Angeles Lakers contro i Boston Celtics. (V.J. Lovero, Sports Illustrated via Getty Images)

💜💛 Lakers Legends


Il racconto, la ricostruzione e l’analisi delle imprese di Bryant. Puntate speciali del podcast dedicate a ripercorrere la storia di Kobe. Tutto, nella sezione destinata a mantenere viva più che mai l’eredità del Black Mamba.

Classe 1993, giusto in tempo per vedere i Lakers di Shaq e Kobe. Da lì nasce un amore incrollabile per l’NBA e i Gialloviola. Lavoro, studio e scrivo. Nel tempo libero cerco di capire cosa sia passato nella testa di Ron prima di prendere QUEL tiro.

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