In copertina: Jamaal Wilkes nel 1970 (Ronald C. Modra, Getty Images), elaborazione grafica di Francesco Anelli

«Vorrei che sia un bravo studente, educato, cortese. Che sappia giocare per la squadra, difendere e andare forte a rimbalzo. Deve essere dotato di un buon gioco vicino al canestro e tiro da fuori. In pratica non ho fatto altro che descrivere Jamaal Wilkes!»

Queste, le prime parole che vengono in mente quando pensiamo a Jamaal Wilkes, leggenda del primo
Showtime gialloviola. Anche perché a pronunciarle non è stato un uomo qualsiasi. Il virgolettato riporta testualmente il parere di John Wooden – guru delle panchine statunitensi, se ce n’è stato uno – durante un’intervista rilasciata al New York Post del 1985, rispondendo alle caratteristiche che avrebbe dovuto avere il suo giocatore ideale di college basketball.

Considerando la venerazione che – giustamente – accompagna la figura del leggendario coach di UCLA, basterebbe questa frase a raccontare la carriera di Wilkes, capacissimo di rispecchiare le stesse qualità positive anche dopo esser approdato tra i professionisti.

Ma nella carrellata dei personaggi che hanno fatto la storia dei Los Angeles Lakers, è impossibile non
citarlo, e quindi non si può non approfondire una carriera di successo come la sua. Capace di star lontano dai riflettori, incidendo in modo decisivo, e regalando spesso il successo ai suoi. Insomma un atleta ed un uomo vincente. Agli occhi del Maestro Wooden, perfetto. E scusate se è poco.

“I suoi hobby sono leggere, ascoltare musica e scrivere. Il suo obiettivo è quello di conseguire una laurea in economia o storia”. Così, nel 1969, Keith Wilkes viene nominato ‘King of Hearts’ della Santa Barbara High School. (Black Gold Cooperative Library System)

🌴 Sweet Home California

Quarto dei cinque figli di Leander Wilkes – un ministro battista – e Thelma Benson, Jackson Keith Wilkes nasce, si sviluppa e fiorisce cestisticamente in California. Diciamo quindi che i Lakers erano nel suo destino fin da quando ha capito che la pallacanestro poteva essere il suo mestiere, ben supportato da un fisico perfetto per le epoche percorse.

Perché Wilkes era un all-around naturale, ed avrebbe costruito il suo successo nella NBA sviluppando la propria versatilità. Caratteristica fondamentale per esser pedina chiave nello Showtime gialloviola, affiancando la più atipica delle point guard per stazza. Ma andiamo con ordine.

Keith Wilkes – il nome Jackson, divenuto a livello gergale Jackie, non gli piaceva molto – nasce a
Berkley il 2 Maggio del 1953, ma cresce a Ventura. Una cittadina sulla costa californiana a nord di Los Angeles, a due passi da Santa Barbara, dove la famiglia si trasferisce a conclusione del primo anno di high school.

Inutile dire che il suo talento era già capace di emergere ai tempi, da giovanissimo. Tanto che le porte
della prestigiosa Università della California a Los Angeles apparivano ben spalancate e pronte ad accoglierlo. Ad attenderlo, in fondo all’immaginario corridoio di benvenuto, John Robert Wooden. Lui, il guru, capace di conquistare con i Bruins dieci tornei NCAA, di cui sette consecutivi.

Quando Wilkes mette piede per la prima volta al Pauley Pavilion di Westwood, i successi in fila sono cinque. Ed avrebbe contribuito in modo determinate a quelli del 1972 e del 1973, con un doloroso terzo posto conquistato nel 1974. Quello che interrompe la striscia, prima del suo ingresso tra i professionisti.

Nelle tre stagioni con UCLA mette a referto 15 punti con il 51.4% dal campo e cattura 7.4 rimbalzi. Cifre oscurate dall’ingombrante presenza di Bill Walton, con il quale percorre in parallelo tutto il suo cammino al college.

UCLA subito dopo la vittoria del torneo NCAA del 1971/72. Keith Wilkes è il secondo in piedi da sinistra, mentre Bill Walton è in secondo piano al centro. Col pallone in mano, coach John Wooden.
UCLA subito dopo la vittoria del torneo NCAA del 1971/72. Keith Wilkes è il secondo in piedi da sinistra, mentre Bill Walton è in secondo piano al centro. Col pallone in mano, coach John Wooden. (© UCLA Athletics)

💍 Rookie of the Year & NBA Champion

The Big Red è la predestinata (e realizzata) prima scelta assoluta del draft del 1974, selezionato dai Portland Trail Blazers. Nella stessa edizione, Wilkes finisce straordinariamente più in basso, forse per quel destino di trovarsi sempre all’ombra di un compagno più appariscente, superstar conclamata (in questo caso, seppur in prospettiva).

Un destino che delinea il suo principale punto di forza, perché da secondo violino o terzo che fosse, quel saper far bene tutto quando richiesto, faceva di lui l’arma segreta per definizione. E nella Bay Area – o meglio, negli uffici dei Golden State Warriors – questa cosa l’avevano ben intuita al volo.

Infatti, Keith Wilkes viene chiamato con la pick numero 11 da quella che per memoria condivisa resta la squadra dello strabordante Rick Barry (praticamente 30 punti, 5 rimbalzi, 6 assist e 3 recuperi a partita). Ovviamente in regular season, anche se ai playoff il fatturato resta sostanzialmente il medesimo. Del resto, quella era una squadra non proprio attesa a giocarsela fino in fondo.

Quegli Warriors erano allenati da Al Attles, ex giocatore in grado di tirar fuori il meglio da un roster profondo. O quantomeno, trasformandolo tale. In quindici anni sul parquet – di cui diversi al fianco di Wilt ChamberlainThe Destroyer si era distinto per durezza difensiva e capacità di organizzare il gioco, con grande abilità nella gestione del campo senza mai far delle capacità realizzative il suo punto di forza.

Tutte caratteristiche che avrebbe trasmesso ad un gruppo che si era trovato senza Nate Thurmond (appena ceduto ai Bulls) e con un rookie come Wilkes a sguazzar allegramente in un sistema dove ben dieci interpreti erano capacissimi di decidere le partite.

Situazione ideale per un talento disinteressato a monopolizzare il gioco in attacco ed in grado di inserirsi negli spazi creati dai compagni, sfruttandone i vantaggi. Grazie ai 14.2 punti, 8.2 rimbalzi, 2.2 assist e 1.2 recuperi messi a referto viene nominato Rookie of the Year.

Ai playoff il rendimento di Keith cresce e contribuisce alla run degli Warriors, che si laureano Campioni NBA sconfiggendo in quattro partite i Washington Bullets di Elvin Hayes e Wes Unseld. Terzo titolo per la franchigia, il primo dopo il trasferimento da Philadelphia, e ultimo fino a quello griffato Splash Brothers quarant’anni dopo.

🏀 La nascita di Jamaal Wilkes

Ad appena 21 anni, Wilkes ha già vinto quasi tutto il vincibile. E nel Settembre del 1975 decide anche di convertirsi definitivamente all’Islam, dopo aver già abbracciato la fede durante i suoi anni universitari. Cambiando il proprio nome di battesimo (diventerà Jamaal Abdul-Lateef), ma mantenendo pubblicamente il cognome di famiglia per questioni d’identificazione.

Dopo un esordio tanto fulminante, le qualità del novello Jamaal Wilkes divengono di pubblico riconoscimento, e la sua presenza più che appetibile. Difensivamente è in grado di leggere alla perfezione le azioni avversarie, favorire i recuperi e lanciare le transizioni, grazie ad un ottimo senso della posizione. Allo stesso livello, una discreta visione di gioco e la tendenza a selezionare le opzioni più semplici ed efficaci, lo rendono un ottimo realizzatore e un discreto passatore per i compagni smarcati.

Il suo tratto caratteristico più evidente – la ragione del suo soprannome Silk, seta – è un jumpshot dal caricamento quasi inedito, molto più indietro del normale ed un gomito destro eccessivamente aperto verso l’esterno. Con la palla destinata a sparir dietro la sua testa, per poi esser lanciata morbidissima verso il canestro, ad alta parabola.

Non proprio un bel vedere, ma straordinariamente efficace. E soprattutto derivato da necessità originate in giovane età (attorno ai 10 anni), quando stanco di giocar con coetanei tecnicamente e fisicamente inferiori, si trovava a dividere il campo con ragazzi più grandi e più grossi. Stancatosi presto di venir stoppato da avversari più atletici, decise di perfezionare un tiro dalla struttura tanto atipica, che poteva partire da una zona del corpo talmente arretrata da essere impossibile da contestare.

Certo, una meccanica simile non poteva passarla liscia al vaglio di allenatori e compagni. I tentativi di
modificarla operati dai suoi coach alla high school e le critiche di puristi della meccanica come il
compagno Barry, non sortirono effetti particolari. Anche perché le percentuali di realizzazione restavano alte (in carriera vanta il 50% dal campo) e le lunghe braccia di cui disponeva erano il vero segreto per potergli permettere di scoccarlo. Tanto che – come lo stesso Rick riconobbe – quel gomito così fuori direzione al caricamento, magicamente riusciva a tornare in posizione corretta al momento del rilascio. Insomma, un’arma difficile da decifrare e quindi pericolosissima.

Un po’ come il gancio cielo di Kareem Abdul-Jabbar, che per quanto più aggraziato fosse, era stato
concepito dal giocatore per costruirsi un’aurea di incontestabilità destinata a cambiare il destino della sua carriera e delle squadre in cui avrebbe militato. E tra i due, oltre ad un tratto distintivo unico a livello tecnico, le analogie non erano destinate a finire.

Intanto il college, UCLA: Jamaal arriva alla corte di Wooden per proseguire il lavoro iniziato da Kareem
in termini di vittorie (e completare quella striscia incredibile di 88 vittorie consecutive per l’ateneo).
Poi, inevitabilmente, la fede islamica. Ed infine, la convivenza nella stessa squadra, destinata a portar successi roboanti in quella che resta l’epoca probabilmente più entusiasmante della pallacanestro losangelina.

Jamaal Wilkes durante una gara tra Golden State Warriors e Seattle SuperSonics nel 1975. (Focus on Sport, Getty Images)

🏆 I Lakers nel destino

Dopo tre anni passati con gli Warriors, Wilkes sceglie i Los Angeles Lakers da free agent nel 1977,
affiancandosi a Jabbar ed incontrando un gruppo in fase di trasformazione verso lo Showtime: Adrian Dantley come secondo terminale offensivo, il rookie Norm Nixon e Jerry West a condurre dalla
panchina.

Le prime due stagioni nella Città degli Angeli si concludono anzitempo rispetto alle aspettative, con i Seattle SuperSonics a recitare il ruolo di bestia nera, eliminando gli angeleni al primo e al secondo turno della postseason. Anzi, a voler essere precisi il suo primo anno in maglia Lakers appare deludente anche a livello personale, esponendolo a critiche piuttosto aspre.

A causa di una serie di fastidi (non ultimo, la rottura di un dito della mano), disputa appena 51 partite
fermandosi a poco meno di 13 punti per gara, minimo in carriera fino a quel momento, e la stampa lo
crocifisse ergendolo a capro espiatorio di un cammino infruttuoso.

Nonostante un secondo anno di livello superiore (recuperata forma atletica e mentale), il gruppo sembrava bisognoso di una rivoluzione ulteriore. Perché malgrado il talento a roster ci fosse (ed una squadra con Jabbar non poteva non pensare di competere per il massimo della posta in gioco), le carenze sembravano notevoli e la matassa difficile da sciogliere.

Il resto è storia nota: Jerry Buss acquisisce la franchigia e Magic Johnson arriva dal Draft come prima scelta assoluta. Il neo coach Jack McKinney decide di impostare il gioco sulla transizione, prima di subire un assurdo incidente ciclistico e lasciar spazio al suo vice Paul Westhead (con un esordiente come Pat Riley come assistant coach).

It’s Showtime!

La stagione 1979/80 è quella della svolta, Jamaal Wilkes ha 26 anni e sta per disputare la sua sesta stagione in NBA. È già riconosciuto da tutti come uno dei migliori giocatori della squadra e con quelle caratteristiche non può che crescere ancora, sfruttando i contropiedi favoriti dall’impostazione di gioco e dalla gestione di Magic.

Per la prima volta in carriera tocca i 20 punti per gara, giocando sostanzialmente 38 minuti e dimostrando una volta di più la sua versatilità. Le sue lunghe braccia, capaci di generare recuperi (1.6 di media) o semplicemente di sporcar la visuale avversaria, risultavano l’arma perfetta per favorire il gioco in velocità gialloviola. Il primo Showtime, dove Wilkes ed il compagno Michael Cooper erano interpreti imprescindibili. E poi, quando l’esecuzione offensiva stagnava contro la difesa schierata, lui poteva scoccare quel tiro lì: antiestetico, a tratti episodico all’apparenza, ma dannatamente efficace (53.9% nei tiri da due in stagione).

Ai playoff la cavalcata è entusiasmante ed il rendimento di Jamaal resta identico, per niente in difficoltà nel dover vivere all’ombra del totem Jabbar e dell’estroso Johnson. E da un punto di vista delle gerarchie, anche del pretenzioso Norm Nixon, spesso alla conquista di conclusioni e giocate personali. Un problema, questo, che per Wilkes mai è esistito. E che lo ha reso in grado di farsi trovar pronto all’ultimissimo atto stagionale, disputando una partita leggendaria, senza che nessuno se ne accorgesse. Anzi, probabilmente la Gara 6 delle NBA Finals del 1980 di Jamaal è la più incredibile di sempre tra quelle dimenticate, malgrado prodotta da un giocatore della squadra vincente.

Anche qui, la storia è conosciuta. La serie finale contro i Philadephia 76ers è incerta quanto combattuta, e per quanto il rookie Magic Johnson rappresenti il faro che illumina il gioco dei suoi, Jabbar gioca in modo devastante. Nel pivotal game di Gara 5 chiude con 40 punti e 15 rimbalzi, regalando ai Lakers un match point improbabile visto il brutto infortunio in cui incorre a gara in corso. Lui stringe i denti e non demorde, ma per Gara 6 allo Spectrum non ci sarà.

Dover ritornare a Los Angeles per giocarsi il trofeo alla settima sfida appare scontato per tutti, ma la storiella a questo punto si blocca nei toni cupi, e accelera puntando il focus su una prestazione eroica, risolutiva, che riporterà i Lakers sul tetto del mondo senza il loro centro. E no, questa prestazione non sono i 37 punti e 10 rimbalzi di Jamaal Wilkes, bensì l’incredibile performance offerta da Magic Johnson, che gioca da centro e segna in ogni modo immaginabile. 42 punti, 15 rimbalzi, 7 assist ed il premio di Finals MVP.

Lo stesso Earvin lo ha ricordato spesso, quanto assurdo sia stato che la prova di Wilkes sia finita così rapidamente nel dimenticatoio, vista la sua grandezza. Ma ancora oggi – e lo abbiamo visto anche nella recentissima serie TV prodotta da HBO, Winning Time – se si deve raccontar l’epilogo di quel campionato, lo spazio per fermarci su Jamaal è sempre troppo poco. A volte, neanche si menziona.

Ed anche questo la dice lunga sul tipo di giocatore che fosse e sul tipo di squadra stessero per diventare i Lakers di McKinney, Westhead e Riley. O ancora meglio, del dottor Buss.

Nella gara che ha consacrato Magic Johnson, Jamaal Wilkes ha realizzato 37 punti (16/30 dal campo) e catturato 10 rimbalzi, di cui 6 sotto il tabellone di Philadelphia.

Le difficoltà dentro e fuori dal campo

Dopo quel successo, Jamal Wilkes proseguirà in un crescendo statistico nelle due stagioni a seguire. La sua importanza è ormai conclamata. Nella caotica stagione 1980/81, Westhead sceglie di far più di un passo indietro rispetto all’impostazione in transizione amata da pubblico e giocatori. Con un gioco più rotto Wilkes raggiunge il suo apice realizzativo in carriera, con 22.6 punti ad incontro.

Ma le cose vanno male, i gialloviola escono già al primo turno contro i Rockets e tutto è rimandato ad una ipotetica rivincita, che non può avvenire senza l’esonero del coach. Per quel che riguarda lui però, le cose vanno ancor peggio, e la questione riguarda la sfera personale.

Nel 1977 Jamaal aveva già perduto una figlia di un anno – concepita con la sua ex moglie Joycelyn Bramlette – per una malattia cardiaca. A poche settimane dall’inizio del training camp della stagione 1981/82, la tragedia si ripete e lo getta nello sconforto più assoluto (e comprensibile). La figlia neonata Arainni Julise, non riesce a resistere oltre la settimana dopo aver visto la luce e per quanto con la moglie Valerie Topping avesse provato a vivere il dolore con il massimo del riserbo, la sua sofferenza era tanto visibile quanto destinata a riverberarsi sul campo.

L’attacco di Westhead – letteralmente odiato da tutti i componenti della squadra – continua a risultargli
difficile da digerire, e considerando tutte le questioni extra campo che lo tormentano, il suo avvio è a dir poco disastroso. Tira dal campo con un inedito 40% scarso e le voci di un sua possibile cessione (principalmente riguardanti uno scambio per Marques Johnson dei Bucks) apparivano più che fondate.

Addirittura, nel pieno di un periodo di completa arrendevolezza, valuta anche l’idea di mettersi in pausa
per un po’, per ricaricare le pile e recuperare un equilibrio mentale vacillante. Poi però le cose cambiano.
Al timone sale l’assistente Pat Riley e lo Showtime decolla definitivamente.

🔥 La rivoluzione di Pat Riley

Più o meno sfruttando la fiducia acquisita negli anni precedenti da assistente di Westhead, Riley parla con
il giocatore e – senza mai provar a convincerlo – riesce a farlo desistere dall’ipotesi di un auto esilio forzato. E con lui, anche la squadra si stringe attorno a Jaamal, spiegandogli che poteva trovar più distrazioni e conforto praticando il gioco che amava da sempre, piuttosto che passando le giornate guardando il soffitto di casa sua. Ed anche per questo – ma non solo – i Lakers si ritrovano, tornando a divertire e a convincere.

Di nuovo la cavalcata playoff è entusiasmante, e con le chiavi della squadra completamente nelle mani di Johnson, i Lakers ritornano campioni. Ancora a spese dei 76ers. In una serie in cui Wilkes doveva nuovamente decidere il risultato del campo non solo per le sue skills offensive, ma anche limitando Julius Erving, uno dei campioni più difficili da affrontare di tutta la lega.

Già in Gara 1 risultò decisivo realizzando 16 dei suoi 24 punti totali nel terzo quarto, favorendo un parziale di 40 a 9 che chiuse una sfida giunta all’intervallo lungo con i Lakers in svantaggio di 9 punti. Nella decisiva Gara 6, invece, in un Forum gremito e agghindato a festa, chiuse con 27 punti dopo aver ucciso la partita con canestri pesanti, in momenti difficili della sfida.

Dire che Jamaal era riuscito a trovar motivazioni extra, in una stagione umanamente tanto difficile, potrebbe essere quasi un azzardo. Ma immaginarselo completamente propenso a godersi ogni minuti di felicità, dopo tanta tristezza, è sicuramente l’immagine più realistica che possiamo portar con noi di quelle Finals.

In Gara 1, allo Spectrum di Philadelphia, i Lakers conquistano il fattore campo grazie ai 24 punti, 10 rimbalzi di cui 7 in attacco, 3 assist e 4 recuperi di Jamaal Wilkes.

Il declino fisico e il ritiro

Probabilmente, quella Gara 6 è stata il suo ultimo momento all’apice, prima di un progressivo declino anche fisico. Inevitabile, per uno capace di spender tanto in entrambe le metà campo, al quale il destino non ha mai lesinato imprevisti più o meno gravi.

Nella stagione 1984/85, dopo aver lasciato il suo posto in quintetto al neo arrivato James Worthy, Wilkes si rompe il legamento del ginocchio ed è costretto a saltare le ultime 40 partite di stagione, oltre ad un’edizione (vincente, di nuovo) della postseason.

La sua carriera in gialloviola è al capolinea, ma resta comunque in città passando l’estrema coda di carriera ai Clippers: gioca 14 gare, in modo completamente impalpabile. Decide così di ritirarsi
all’improvviso, dichiarandolo alla vigilia del Natale 1985.

Chiude con quattro titoli NBA, tre convocazioni all’All-Stars Game e due inserimenti negli All-Defensive Team. Senza mai sgomitare per apparire luminoso in una squadra scintillante, concentrandosi sulla concretezza in campo anziché ambire ai lustrini, rappresentando il prototipo ideale dell’uomo giusto in una squadra da sogno.

Inevitabile così, tornare alle parole di Wooden che abbiamo letto in esordio di articolo. Che se
probabilmente alla luce dell’oggi appariranno un po’ troppo definitive, descrivono al meglio ciò che
Jamaal Wilkes è stato nella sua era di percorrenza anche tra i professionisti. Soprattutto agli occhi dei suoi allenatori: perfetto.

📊 Jamaal Wilkes

Take a look back at one of the smoothest basketball players of all time, Jamaal Wilkes.

💜💛 Lakers Legends


Il racconto, la ricostruzione e l’analisi delle imprese di Bryant. Puntate speciali del podcast dedicate a ripercorrere la storia di Kobe. Tutto, nella sezione destinata a mantenere viva più che mai l’eredità del Black Mamba.

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