In copertina: Anthony Davis e LeBron James (Lakers.com)
C’è un’immagine di purehoop – aka Jack Perkins – che secondo me rappresenta perfettamente cosa sia stata questa stagione dei Los Angeles Lakers, e infatti lo stesso artista l’ha rispammata su tutti i suoi account social il giorno dopo la sconfitta in Gara 4 contro i Denver Nuggets.
Loved watching this team grow and gel towards the end of the season. Thank you @Lakers
— Jack Perkins (@purehoop) May 23, 2023
Congrats to Denver. And don’t worry, I got something in the works for you Nuggets fans pic.twitter.com/hEA4URNUzw
L’idea di gruppo unito, di ragazzi che hanno trovato lungo la strada la chimica necessaria per arrivare fino alle Western Conference Finals dopo un inizio da 10 sconfitte nelle prime 12 partite di regular season, non poteva essere rappresentata meglio, soprattutto se ne facciamo una questione di affetto, di ciò che ci legherà per sempre a una squadra e a dei giocatori cui a un certo punto era impossibile non volere bene.
Si tratta, credo, della vera essenza del tifo in quanto tale, di ciò che spinge noi che viviamo al di qua dell’oceano a vivere e regolare le nostre vite sul terribile fuso orario della California e della West Coast in generale. Soprattutto dalla primavera in poi: «Io ad aprile non voglio dormire», mi aveva scritto nei DM di Instagram il mio amico Andrea Bestini, quando ancora eravamo tutti lì a fare i conti e i calcoli su quante vittorie mancassero per raggiungere quella maledetta quota 0.500, linea di confine reale e metaforica tra un’altra stagione buttata e qualcosa per cui, come cantava Pino Daniele, «val ‘a pen e vivere e suffrì». Era il 30 marzo, sembra passata un’eternità.
Ci ho ripensato spesso a quella frase, anzi a quel desiderio, di Andrea. Ci ho ripensato durante una rincorsa ai playoff durata due mesi che mi sono sembrati due anni, ci ho ripensato dopo la sconfitta di Houston e la tripla allo scadere di Maxi Kleber, ci ho ripensato dopo l’ennesimo derby perso – forse l’unico che valesse davvero qualcosa per noi e per loro – e dopo un Play-In andato più liscio di quanto immaginassi.
E ci ho ripensato durante le serie contro Memphis e Golden State, quando gli eroi non avevano per forza il volto, le fattezze, la forza e il talento di Davis e James ma erano ugualmente «giovani e belli», che si trattasse di Austin Reaves, Rui Hachimura, D’Angelo Russell, Jarred Vanderbilt, Lonnie Walker o Dennis Schröder non importava poi granché.
Alla fine è arrivata Denver a svegliarci anche se non stavamo dormendo, appunto. Nikola Jokic e Jamal Murray si sono dimostrati troppo più forti anche per chi a un certo punto sembrava entrato in quella dimensione da “team of destiny” per cui l’approdo naturale non potevano essere altro che le NBA Finals, magari contro i Boston Celtics per giocare a chi arriva prima a 18, magari in sette partite perché a quel punto se davvero non dovevamo dormire tanto valeva farlo fino in fondo.
Come sappiamo è andata diversamente e ci sarà tempo e modo per capire dove, come e perché – quel tiro di LBJ in Gara 1 sul meno tre? I troppi minuti concessi a DLo? Gli aggiustamenti insufficienti di Darvin Ham? AD e Rui che non hanno stancato abbastanza il Joker con il numero 15? – ma il bello sta proprio qui: non cambia niente. Perché c’è la delusione, c’è il rammarico, c’è quella sensazione di aver comunque perso un’occasione che potrebbe non capitare più tanto presto, ma c’è anche tutto il resto, c’è il motivo per cui tutti noi gioiamo, ci arrabbiamo, aspettiamo, speriamo.
I Lakers ci hanno restituito il senso vero dello sport per tifosi e appassionati, qualcosa che va al di là del rapporto – intimo, personale, soggettivo – tra vittoria e sconfitta e che si sostanzia in quella voglia di darsi un’emozione, di sentirsi vivi, di provare qualcosa notte dopo notte anche quando sei sotto 3-0 contro la squadra che ti riporterà con i piedi per terra. Ci sono state, e ci saranno, versioni dei Lakers più forti, più vincenti, più tutto, ma questi Lakers si sono guadagnati il diritto di essere ricordati, amati, celebrati, ringraziati, anche dopo uno sweep.
Quindi, grazie. A loro e a noi.
Grazie a Rob Pelinka per aver avuto il coraggio di cambiare appena in tempo.
Grazie a LeBron James per essere stato più di un record senza asterischi in una stagione che sembrava poter portare solo quello, a noi e a lui.
Grazie ad Anthony Davis, il “kaiju”, per quella Gara 6 contro i Grizzlies, per la difesa su Steph Curry, per un 40+10 che poteva e doveva essere sfruttato meglio e poi chissà, più in generale per essere tornato quello che nella prossima stagione dovrà essere fin dalla prima partita di regular season.
Grazie a Austin Reaves che fin da Gara 1 a Memphis ci ha fatto capire che i soldi che vuole li merita tutti, fino all’ultimo centesimo.
🔥 Austin Reaves (23 points, 3 rebounds and 4 assists) dropped 14 pts in 4Q and didn't miss a shot in the 2nd half against the Grizzlies!
— Giovanni Rossi (@spawnix) April 17, 2023
👀 Hillbilly Kobe running back after back-to-back clutch buckets: "I'm HIM! I'm HIM!!!"#LakeShow #BigMemphis #NBAPlayoffs pic.twitter.com/vMZxUHQb0M
Grazie a Rui Hachimura che ha cominciato a giocare a basket semplicemente perché non riusciva a smettere di leggere Slam Dunk di Takehiko Inoue, e speriamo che in qualche modo riesca a vedere anche il film – capolavoro, a proposito.
Grazie a Dennis Schröder e D’Angelo Russell per tutte le volte che mi hanno fatto ricredere su di loro nell’azione immediatamente successiva a quella in cui commettevano un’immane fesseria.
Grazie a Jarred Vanderbilt per quella domenica sera a Dallas perché è lì che ho capito che ai playoff ci saremmo arrivati, in un modo o nell’altro.
Grazie a Lonnie Walker IV perché Curry ha deciso che non lo perdonerà mai per Gara 4.
Grazie a Troy Brown Jr. e Malik Beasley per aver continuato a tirare anche quando i tiri non entravano e a Wenyen Gabriel, per aver dato tutto quello che aveva – che fosse per un secondo, un minuto, un quarto intero.
Grazie alle seconde e terze linee che scacciavano le mie assurde paure di improbabili rimonte negli ultimi minuti semplicemente mettendo piede in campo.
Grazie ad Ale, compagno di interminabili nottate passate a darci forza e coraggio a vicenda.
Grazie a Davide Torelli, Leo Pedersoli e Federico Turrisi per i thread del giorno dopo che mi hanno spiegato ciò che avevo visto e che, talvolta, non ero stato in grado di capire fino in fondo.
Grazie a Zeno Pisani per gli aggiornamenti in tempo reale sulla presenza di Jack, di Kyrie, delle Kardashian, del berrettino di Dennis e della relativa striscia aperta. Sono serviti anche quelli, eccome.
Grazie a mia moglie per avermi tollerato – «La prossima volta puoi arrabbiarti a voce un poco più bassa per favore?», cit. – e alla mia gatta che mi ha fatto compagnia mentre mi preparavo il caffè portafortuna dell’intervallo.
Grazie alle sveglie, anche e soprattutto quando non hanno suonato e fa nulla se poi sono arrivato tardi a lavoro.
Grazie a chiunque ci sia stato anche solo aprendo l’app al mattino per controllare il risultato e sorridere lo spazio di un secondo.
E, last but not least come direbbero quelli bravi ma bravi davvero, grazie a questa community, ai contenuti che ha proposto e propone ogni giorno, al lavoro che c’è dietro e che va molto oltre ed è molto più importante di queste righe che state leggendo. Mi piace pensare che se siamo arrivati fin qui è anche grazie a LakeShow Italia, a ogni singolo articolo, a ogni singolo podcast, a ogni singolo recap o longform che ho, che avete, che abbiamo trovato su questo sito. Come ho detto lo sport è bello, ma vivere lo sport lo è ancora di più: e qui sopra lo abbiamo vissuto, altroché.
Con tutti voi, con tutti noi, ci si rivede l’anno prossimo.
Perché ad aprile non vogliamo dormire. E non solo ad aprile, ovviamente.
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Fu giornalista di e per sport. Ogni tanto qui e su Rivista Undici